Salvatore Fergola, “Notturno a Capri”, 1843 circa (Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, ora alla mostra “Romanticismo” alle Gallerie d’Italia, a Milano)

Romanticismo, che impresa

Maurizio Crippa

Una bella mostra ambiziosa alle Gallerie d’Italia di Milano e il sistema culturale virtuoso di Intesa Sanpaolo. Non mecenatismo, ma investimento nella cultura come bene pubblico

"Si apersero teatri, ove le famiglie inselvatichite da sette generazioni impararono a conoscersi e a gustare le dolcezze del viver civile, della musica e della poesia”, scriveva Carlo Cattaneo a metà dell’Ottocento. Quanto alla pittura, chissà. Alphonse de Lamartine fu sfidato a duello per aver definito l’Italia “terra dei morti”. Ci volle Stendhal, che era di casa a Milano, per definire Francesco Hayez “le premier peintre vivant”. E ci volle Mazzini, che stava in pensoso esilio a Londra, per scrivere: “La pittura non è morta in Italia: tutto al contrario”. Anzi era risorta grazie a una generazione di giovani artisti “nati dal popolo” e spesso di umili origini. L’Italia era ancora soltanto un’espressione geografica, ma dall’Europa delle nazioni soffiava un vento impetuoso. E il “popolo”, che oggi va tanto di moda, non era ancora il popolino populismo dei disastri che verranno decenni dopo: era una classe intraprendente e borghese affascinata, con qualche ambizione, da quel che accadeva fuori dai suoi tortuosi confini. Anche nel settore delle arti e del gusto. Proprio a Milano, già capitale della musica e dell’editoria, e in Lombardia si erano concentrati molti artisti che avevano trovato qui ispirazione e innovazione, spazi en plein air per i loro pennelli. E committenza, che non guasta mai. Ci sono visioni delle Alpi e wuthering heights, notturni che anelano al Sublime (anche lune sul mare: non c’è soltanto il Nord, c’è la magnifica Scuola di Posillipo, ci sono le scoperte di una Sicilia mitologica e ancestrale). Ci sono pensosi ritratti tra le rocce di viaggiatori e poeti, giovani donne malinconiche o sognanti nei loro salotti, o popolane al mercato. Eroi della Storia con i loro tormenti e il loro sacrificio.

 

Ci sono i notturni che anelano al Sublime. I pensosi ritratti di viaggiatori e poeti, di giovani donne malinconiche o sognanti

Il Gruppo ha appena aggiornato in bilancio il valore della sua collezione. L’economia produce arte e l’arte è anche valore economico

La mostra si intitola semplicemente “Romanticismo”, ed è un titolo programmatico. Ha aperto da poco alle Gallerie d’Italia di Piazza della Scala a Milano, centro del sistema museale di Banca Intesa – ma parte dell’esposizione è ospitata al Museo Poldi Pezzoli, altra eccellenza milanese, una Fondazione in cui privato e pubblico formano un connubio virtuoso. Si concentra soprattutto, ma non solo, ci sono sguardi stranieri importanti, sugli artisti italiani – su duecento opere una quarantina non sono mai state esposte prima d’ora, alcune sono autentiche scoperte – ed è ovviamente un viaggio affascinante per gli occhi e con accostamenti giudiziosi e sorprendenti: come le vedute dei Navigli e della Senna a Parigi dipinti dalle mani di artisti italiani, che rimandano idealmente a una comunanza spirituale tra città che allora erano acquatiche. La mostra si intitola semplicemente “Romanticismo”, perché oltre che piacevole è innanzitutto un percorso intelligente, pensato. Con un’ambizione culturale che supera la mera promenade di quadri a un’esposizione.

 

Si dice Romanticismo, si pensa comunemente alla Germania, alla Francia, all’Inghilterra. Con quel complesso di inferiorità che è anche colpa del retaggio retorico e noiosotto delle nostre élite risorgimentali e poi nazionali. Poi ci si ricorda che l’Italia dal Settecento alla fine dell’Ottocento è una delle capitali europee della musica, da Rossini a Donizetti per non citare Verdi, e la Scala, il San Carlo e la Fenice i suoi templi. Tra Manzoni e Leopardi, anche nelle lettere non va così male. Ma le arti figurative? Curata da Fernando Mazzocca, tra i migliori specialisti italiani dell’Ottocento e docente di Storia della critica d’arte alla Statale di Milano, la mostra affronta con coraggio e in modo organico l’argomento: quanto ha contribuito, o perfino influito, l’Italia delle arti figurative nello sviluppo del grande movimento romantico europeo? Che non fu solo un palpito di sentimenti e anime belle, ma fu la scoperta della natura e dei popoli, dello stupore della notte e dei misérables, dello studio della storia e delle innovazioni scientifiche. Insomma il magmatico preludio del moderno. La risposta di Mazzocca e degli altri studiosi che hanno contribuito all’ottimo catalogo, è: tanto. Addirittura in qualche caso facendo da battistrada al gusto figurativo che si diffonderà in Europa, qui ovviamente ben rappresentato da alcune opere di Caspar David Friedrich. Anche in questo caso è Milano ad avere un “peso culturale, destinato a diventare sempre più decisivo” scrive Mazzocca, in quello che definisce “l’esaltante laboratorio del Romanticismo italiano”. Non è avvenuto per caso, ma “ha comportato una radicale trasformazione del sistema delle arti, basato su nuovi canali di trasmissione, in particolare le esposizioni”, e in un più generale ammodernamento di quello che in Europa stava già diventando “l’industria culturale”.

 

Hayez, Friedrich, anche Turner e Massimo D’Azeglio, sì. Ma poi ci sono Vela, Caffi, Molteni, De Gubernatis, Carelli, gli Induno. Nomi di eccellenti artisti che non necessariamente fanno una mostra blockbuster (anche se il pubblico accorre, i numeri delle prime settimane sono lusinghieri). Ma fanno prima di tutto una mostra ragionata, con un impianto scientifico solido che permette di imparare (scopo a volte dimenticato, ma non così peregrino, delle mostre, intese come passeggiate di conoscenza). E’ quello cui dovrebbero sempre ambire le grandi istituzioni, pubbliche e private, per non limitarsi a mettere “in mostra”. “Milano e la Lombardia sono state il laboratorio del Romanticismo”, scrive Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa Sanpaolo, nel catalogo. Sarebbe una frase di circostanza, se non fosse l’assunto storico-culturale che l’esposizione vuole dimostrare. In un momento in cui, tra l’altro, Milano e l’Italia hanno un drammatico bisogno di rimanere attaccati alla loro radice europea.

 

E qui vi lasciamo alla visione della mostra (fino al 17 marzo 2019), per mettere in fila qualche annotazione sulle Gallerie d’Italia e sul “sistema culturale” di Banca Intesa, che in pochi anni si è imposto come un prototipo virtuoso di ciò che può fare l’economia privata per la cultura e la sua utilità pubblica, e di ciò che dovrebbero essere le istituzioni culturali pubbliche, se fossero libere di agire. Il “Progetto cultura” di Banca Intesa Sanpaolo è nato nel 2011 come un “veicolo con il quale offrire il suo contributo al progresso culturale del paese”, con l’idea che una grande banca abbia, oltre alle responsabilità economiche, anche responsabilità di un ruolo pubblico nella vita sociale e del territorio. Un’idea che è comune ad altre imprese economiche, ovviamente, ma che nel disegno, che è anche una legacy, di Giovanni Bazoli, il Professore, ha assunto dal principio una visione d’insieme compiuta, anche grazie al comitato scientifico permanente cui fa parte tra gli altri proprio Fernando Mazzocca. E grazie a una forza d’urto notevole, visto che il gruppo bancario ha un patrimonio di oltre ventimila opere d’arte, molte delle quali di livello assoluto. L’economia produce arte, e la restituisce. E l’arte è parte di una dinamica economica virtuosa, si potrebbe dire. Non è un caso che proprio la scorsa settimana Intesa San Paolo “superando un vecchio pregiudizio secondo cui le proprietà storiche e artistiche erano considerate in posizione subordinata, sottovalutate”, Intesa Sanpaolo abbia aggiornato il valore della sua collezione in bilancio allineandolo alle valutazioni correnti del mercato dell’arte. Il valore attribuito alle 3.500 opere classificate come “di pregio storico artistico”, è di 271 milioni di euro, su un totale di beni artistici e storici valutati in 850 milioni di euro.

 

Opere (e valori) che hanno le loro case. In pochi anni, i poli museali di Gallerie d’Italia, con le loro collezioni permanenti e le mostre, hanno occupato un ruolo di primo piano.

 

Una mostra intelligente, pensata. Con un’ambizione che supera la mera promenade di quadri ad un’esposizione

Il progetto è nato nel 2011. L’idea di fondo della responsabilità dell’economia nel produrre un valore anche pubblico

Le Gallerie di Palazzo Anguissola Antona Traversi in piazza della Scala, la ex sede della Comit di Raffaele Mattioli, sono nate nel 2011. Le Gallerie di Palazzo Leoni Montanari a Vicenza sono state le prime, nel 1999, a ospitare una collezione di icone russe considerata tra le più importanti in occidente e sono state rinnovate nel 2014. Le Gallerie di Palazzo Zevallos Stigliano a Napoli sono aperte dal 2007 e interamente rinnovate nel 2014. Non ci sono solo i musei, all’interno di una programmazione (e un bilancio) importanti anche per un gruppo bancario di queste dimensioni. Il fiore all’occhiello di uno stile di intervento culturale programmaticamente non effimero è ad esempio il progetto Restituzioni – che si avvia a compiere trent’anni, è stato varato nel 1989 – che finanzia e realizza restauri di beni artistici e architettonici in tutta Italia, non di proprietà della banca, individuati con le Soprintendenze e le istituzioni pubbliche.

 

L’ultima “restituzione” è stato il restauro della Cassetta Farnese di Capodimonte, un gioiello unico nella storia dell’oreficeria che tornerà esposta in un museo nazionale. Un altro aspetto seguito con particolare cura è quello dell’offerta educativa e didattica delle Gallerie d’Italia, che ha in ogni sede personale specializzato per gestire visite, laboratori, corsi. Milano accoglie ogni anno oltre diecimila studenti. Attività cui si affiancano quelle del “Museo accessibile”, che non solo garantisce l’accesso a persone con disabilità motorie, ma ha sviluppato percorsi di lavoro (che diventa cura) per molti tipi di patologie cognitive e sensoriali.

 

Tutto questo è frutto di “una consapevolezza diversa dal fare semplicemente del mecenatismo culturale”, come spiega Michele Coppola, direttore Arte, cultura e beni storici di Intesa Sanpaolo. “Restituire” in termini di valore fruibile alla società parte del proprio patrimonio è un verbo chiave dell’economia di oggi. Ma l’ambizione è di mettere a disposizione non solo denari, ma progetti coerenti destinati a essere duraturi. Ciò che dovrebbe innanzitutto fare l’istituzione pubblica, che non a tutto e non sempre arriva. Ciò che può fare un’istituzione privata, svolgendo un ruolo che è anche specifico di impresa. Il tutto, in tempi di cattiva fama dei banchieri, di sospetto per l’iniziativa privata e di paladini delle nazionalizzazioni anche in ambito culturale, è più che un buon esempio.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"