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La rivoluzione italiana del 4 marzo nasce dalla frustrazione del ceto medio

La società del rancore nel nuovo libro di Bruno Vespa

Gli inglesi, come al solito, vanno al sodo. Tre mesi dopo le elezioni del 4 marzo 2018 il Financial Times ha spiegato in due righe la rivoluzione italiana: “Crescere solo del 4 per cento sul 1997 e perdere l’8 per cento sul 2007 ha fatto vincere i populisti”. “E’ la società del rancore” mi dice Giuseppe De Rita. “Il risultato del 4 marzo nasce dal lutto per quel che non è stato. Frustrazione, delusione. La società italiana saliva, saliva… Poi l’ascensore si è rotto e quelli che sono rimasti dentro si sono arrabbiati”.

 

De Rita indossa benissimo i suoi 86 anni. Nell’elegante palazzina del 1929 dove a Roma ha sede il Censis, da lui fondato nel 1964, ausculta da più di cinquant’anni pulsazioni e palpiti della società italiana. “Il rancore è frutto della crisi del ceto medio. Abbiamo avuto due momenti di grande coinvolgimento collettivo. Il primo è stato quello della ricostruzione e del Miracolo italiano, tra il 1945 e il 1970”. Per rivedere l’ascensore sociale in movimento, devo chiudere gli occhi e ripercorrere – decennio dopo decennio – gli incredibili progressi economici e sociali fatti tra il 1950 e il 1990. Nel mio liceo dell’Aquila, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, i figli di laureati erano pochissimi. Nella mia classe ci siamo laureati tutti e abbiamo fatto lavori sempre più che dignitosi, spesso brillanti. Ragazzi che venivano dalla miseria dei paesi di montagna sono stati l’orgoglio dei loro genitori, contadini poveri. Si guardava avanti, nella certezza di crescere. La scuola era di altissima qualità, i professori erano élite, il doppio stipendio in famiglia – frequente – consentiva di comprare la casa con un mutuo lunghissimo. In Italia, centinaia di migliaia di famiglie povere conobbero per la prima volta l’uso del bagno grazie al gigantesco piano casa di Fanfani. (Qualche contadino, trovando superfluo il bidet, ci piantò il prezzemolo). Frequenta solo ragazzi migliori di te, ammoniva mia nonna. Non c’era invidia, ma emulazione. Eravamo negli anni del Botticelli sognante della Primavera e della Nascita di Venere.

 

Oggi trionfa il Botticelli disperato degli ultimi anni, quello della Mappa dell’Inferno. I dannati che si sentono senza speranza non cercano di risalire su posizioni migliori, ma vogliono trascinare chi sta meglio su posizioni peggiori. Trionfa l’invidia sociale e conta poco che tu abbia raggiunto una buona posizione con le tue forze o perché spinto solo da una fortuna parassitaria. I nostri genitori erano convinti – tutti – che avremmo avuto una posizione sociale ed economica migliore della loro. Il diplomato sognava il laureato, il geometra, l’ingegnere o l’architetto, l’infermiere il medico, e così per ogni professione. Spesso questi sogni si realizzavano. Adesso, purtroppo, avviene il contrario. Nell’autunno 2018 Pier Giorgio Ardeni, presidente dell’Istituto Cattaneo, attingendo a una ricerca Ocse (che riunisce i 35 paesi più industrializzati del mondo) avverte che chi nasce oggi in Italia in una famiglia a basso reddito (tra il 10 per cento più povero della popolazione) impiega 150 anni per raggiungere il reddito medio nazionale. A differenza dei paesi Ocse, in Italia il 71 per cento dei genitori teme che i figli non raggiungeranno lo status e il reddito che hanno ottenuto loro. Negli altri paesi, un laureato guadagna il 60 per cento più di un diplomato. In Italia la media si abbassa al 40 per cento. Sempre nell’autunno 2018 l’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro ha rivelato che, a 30 anni, 4 laureati su 10 sono senza lavoro o svolgono un’attività professionale che non richiede la laurea. In ogni caso, 6 laureati su 10 bene o male lavorano, contro il 73 per cento dei diplomati e il 57 per cento di chi ha soltanto la licenza media. Quest’ultimo dato pesa, visto che oltre la metà degli italiani si è fermata alla terza media. Bene, due terzi dei loro figli si fermano anch’essi allo stesso livello di istruzione scolastica. Solo il 6 per cento dei figli di genitori non diplomati raggiunge la laurea (meno della metà della media Ocse) e il 40 per cento dei figli di chi ha un lavoro manuale continua sulla stessa strada (mentre gran parte dei figli di dirigenti e manager diventa dirigente o manager).

 

L’Italia è il paese europeo con la più bassa mobilità sociale verso l’alto, alla quale si aggiunge una rilevante mobilità verso il basso. Cosa, per la mia generazione, semplicemente impensabile. Non riuscendo a crescere, si esalta la decrescita e si pretende che sia felice. Se ti trascino all’inferno, le fiamme mi bruciano meno. Tre economisti di un gruppo di ricerca tedesco, che hanno stilato la classifica della “disuguaglianza ingiusta” in 31 paesi europei, riconoscono che non tutte le disuguaglianze sono negative: vanno valutati capacità, impegno, colpi di fortuna e circostanze varie della vita. Al netto di tutto questo, c’è l’ingiustizia: purtroppo, l’Italia è al secondo posto, dopo la Lituania.

 


 

Pubblichiamo un estratto di “Rivoluzione-Uomini e retroscena della Terza Repubblica”, il nuovo libro di Bruno Vespa. Il volume (336 pp., 20 euro) è edito da Mondadori-Rai Libri

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