Tintoretto, grande “performer del pennello” che non badava all'eleganza ma all'efficacia

Francesco Bonami

Nei suoi dipinti c’è una grande confusione, dove tutti parlano e discutono. Una caciara che lui dipingeva sentendosi il fiato sul collo di un mondo che stava diventando un caos. In mostra a Venezia fino al 6 gennaio 2019

I provinciali ce l’hanno con l’arte contemporanea, Pif potrebbe confermarlo, o magari gli fa solo paura. Mentre l’arte contemporanea ce l’ha con i provinciali o anche qui è una questione di paura, non è che il provinciale farà capire che il re è nudo davvero? Nel senso che l’opera se uno non la capisce forse è proprio perché è incomprensibile o magari sul serio una presa in giro. Eppure la storia dell’arte è fatta di grandi provinciali che poi son diventati globali anche senza volerlo. Pensiamo all’architetto Palladio il cui stile ha invaso l’America di Jefferson e compagnia bella, Tintoretto, che è il soggetto di questo articolo, che non si è praticamente mai mosso da Venezia e che è nelle collezioni dei più grandi musei del mondo. Ma anche Pollock era un provinciale e pure Warhol e anche Koons e molti dei grandi artisti americani che se li sposti da New York o da Los Angeles rimangono chiusi in albergo, eppure li vogliono tutti perché la loro arte è un acchiappa file eccezionale.

 

Perché allora questo disprezzo davanti al contemporaneo e tutta questa supina devozione davanti all’antico? Troppe informazioni sugli artisti vivi ci rendono prevenuti nei loro confronti mentre sugli antichi ci possono raccontare un bel po’ di balle e noi ce le beviamo tutte tanto come si fa a controllare se Raffaello menava la moglie o meno ma di Ilona Staller e Koons ci sono le foto. Ma forse la reverenza è dovuta pure al fatto che l’antico come la morte incute timore o banalmente perché è più difficile da portarsi a casa. Un Tintoretto in ascensore non ci sta mentre una Marylin di Warhol sì. E quando uno ti entra in casa diventa subito un amico e agli amici di solito si porta meno rispetto che agli sconosciuti e tutto si butta in caciara.

 

Di caciara nei dipinti di Tintoretto, appunto, ce n’era parecchia. Una caciara che lui dipingeva sentendosi il fiato sul collo di un mondo che stava diventando un caos. Qualche anno prima che nascesse gli avevano scoperto le Americhe e la sua Serenissima Repubblica di Venezia cosi serena non era più, essendogli andata in crisi la Via della seta e parte dei suoi commerci . Marco Polo era stato fregato da Colombo e la gente aveva iniziato ad andare ad ovest . Con l’oriente in crisi Tintoretto dipinge il dis-orientamento del suo piccolo mondo antico. Ma non lo fa con nostalgia. La sua pittura non è pedante o piagnona ma violenta, rapida, aggressiva una sorta di Pollock figurativo. Disegna poco Tintoretto e quando gli chiedono un progetto lui si butta subito sulla tela a fare il quadro, niente studi preparatori o dichiarazione d’intenti, prendere o lasciare e molti prendono. Sua spina nel fianco è il signor Paolo Caliari conosciuto come il Veronese, ordinatino anche se non certo meno monumentale. Veronese dipinge dal punto di vista del cane mentre Tintoretto da quello più alto ma più curioso del pensionato che guarda il cantiere o della casalinga che osserva la rissa fra due gruppi di ultrà dalla finestra di casa. Alle cene dipinte da Veronese il catering sembra più organizzato mentre a quelle di Tintoretto c’è una grande baraonda ma a guardarle ci si diverte di più. Si capisce, anche se non si sa se lo capiva lui, che Tintoretto è l’ultimo gigante del Rinascimento tipo Ken Rosewall per il tennis che perde la sua ultima occasione a quarant’anni di vincere Wimbledon nel 1974 contro il giovane Jimmy Connors. I Connors o i McEnroe per i grandi del Rinascimento saranno Caravaggio o Salvator Rosa, meno baroni e più bari. Più James Dean che Clark Gable.

 

Per fortuna agli americani non è toccato il Rinascimento. Invece di Toro Seduto o Alce Nera avrebbero dovuto spremersi il cervello per trovare soprannomi ai propri artisti e chissà se sarebbero mai riusciti a chiamare un pittore “Little Dyer Boy”, che, tradotto, sarebbe esattamente Tintoretto. Forse avrebbero preferito chiamarlo “Pennello di fuoco” o meglio ancora “Lampo di luce”. Infatti il sedicente Jacopo Robusti, alle anagrafe Jacopo Comin, in arte Tintoretto , dal mestiere del padre tintore di stoffe e inseminatore di massa, avendo avuto 21 figli, dei quali Jacopo l’ultimo, era un pittore di fuoco, specializzato nelle ombre e nella luce. Nato a Venezia nel 1518, viene mandato dal babbo a studiare dal grande Tiziano, che però lo rispedisce a casa avendo capito subito che, se gl’insegnava troppo, quel giovane gli avrebbe fatto le scarpe.

      

Non gli ruberà il mestiere ma certo di lavoro ne troverà tanto, essendo bravissimo, veloce e straordinario nel interpretare i soggetti religiosi come se li vedesse in telecronaca diretta. Tintoretto studia con attenzione come usa il colore Tiziano e come dipinge o scolpisce i corpi Michelangelo. I personaggi che popoleranno le sue tele saranno, allora, gente uscita dalla palestra Buonarroti e vestita con i saldi della boutique Tiziano. Imparata l’anatomia e a mescolare i colori questo artista non andrà per il sottile, tirando sciabolate sulla tela, pensando poco alla forma e molto al contenuto portandosi dietro sempre – anche quando sarà più maturo – una foga adolescenziale. Il biografo dei biografi Giorgio Vasari lo criticherà per questa sua mancanza di classe e di precisione, senza sapere che, Tintoretto, stava – come abbiamo detto – aprendo la strada, nella jungla del Rinascimento, al Barocco di Velázquez e Rubens, per citarne due a caso, facendo intravedere addirittura i bagliori dell’Action Painting.

      

Se nei dipinti di Tiziano tutto è abbastanza silenzioso e in ordine, in Tintoretto c’è una grande confusione, dove tutti parlano e discutono. Fra Tiziano e Tintoretto esiste la stessa differenza che c’è fra una partita di cricket e una di rugby. Non che Tiziano sia noioso come il cricket, ma il tempo dei suoi dipinti è più lento e coordinato, mentre il tempo del nostro tintore è quello dei minuti di recupero di una finale di Coppa dei campioni. Un quadro di Tintoretto è come un panforte Sapori dove le ombre e le luci sono compatte come la pasta, le mandorle e i canditi del famoso, immasticabile, dolce senese. L’arte del pittore veneziano non solo non è masticabile ma nemmeno bevibile, essendo un’onda di emozioni e di rumori che ci travolge. Le scene dei suoi quadri sembrano arrivare dalla profondità di enormi tubature o tunnel della metropolitana di Manhattan. Tintoretto immagina senza capirla la luce della modernità. Nel ciclo di dipinti sul recupero del corpo di San Marco, Tintoretto fa un po’ il David Lynch, raccontando la storia dei veneziani che vanno a riprendersi le spoglie del loro beneamato santo fino ad Alessandria d’Egitto. Nella tela dell’arrivo del corpo a Venezia , in una specie di piazza San Marco/pista d’atterraggio, l’atmosfera è quasi dechirichiana, con una squadra di spiriti che, coordinati, scappano sotto il loggiato, ricordando i piloti che corrono verso le loro vetture alla partenza della 24 ore di Le Mans.

      

L’arte di Tintoretto è minacciosa, anche quando dipinge un ritratto, dove il personaggio nel quadro pare chiedere allo spettatore “cosa vuoi da me?”, anziché gonfiarsi come un pavone sapendosi osservato. Per Jacopo Tintoretto la vita non è una passeggiata ma una mischia in area dove lo spirito e il corpo si contendono la palla della fede e della speranza. A lui non interessa essere elegante ma efficace, preferisce giocare più a uomo che a zona. Verso il 1560 inizia la sua fatica più grande, il ciclo di dipinti della Scuola di San Rocco, trasformandola praticamente nel museo Tintoretto. Fra le varie scene dal Vangelo, la crocifissione è forse la più eccezionale. La croce sta lì in mezzo, con Gesù attaccato sopra, ma intorno c’è un grande casino, gente che va e gente che viene, come durante l’esecuzione di Saddam Hussein, pochi sanno cosa è successo, solo pochissimi intimi soffrono. Tintoretto, come un grande regista, racconta con le immagini l’indifferenza che circonda sempre la storia e i suoi eccezionali momenti. Ci fa vedere Gesù come lo conosciamo noi, il Dio che si sacrifica per salvarci, ma ci fa, anche, capire che Gesù quando muore è solo uno fra i tanti, condannati e giustiziati, del suo tempo. Criminale o innocente, Dio o uomo non importa. La vita continua perché, se si fermasse, anche la storia, il tempo e il destino dell’umanità si fermerebbero.

    

La pittura di Tintoretto è il tempo che ci travolge come uragano. Anche il Paradiso, per questo ultimo grande maestro del Rinascimento, è un po’ come una curva popolare. Sicuramente da curva saranno le dimensioni della tela commissionatagli dal Doge per Palazzo Ducale, larga 22 metri per 9 di altezza. Se si dovesse fare un paragone con la letteratura, Tintoretto è una specie di Tolstoj, mentre fra i registi sembra David Lean, quello di Lawrence d’Arabia o Peter Jackson del Signore degli Anelli. La sua arte si guarda tutta d’un fiato e rischia di togliere il respiro, come un film di quattr’ore che sembra essere durato solo un’oretta. Tintoretto non dipinge quadri d’azione ma racconta l’epopea dell’umanità attraverso il lungo esodo, nella storia dell’arte, delle forme e dei colori. Provinciale come domicilio è stato un nomade e un astronauta dentro lo spazio infinito della pittura, a cavallo della sua anima selvaggia, se fosse nato nelle praterie dell’Arizona, questo nostro “Little Dyer Boy” veneziano, invece del cuore dei Dogi, avrebbe conquistato, senza problemi, lo spirito di Manitù e quello degli Apache e dei Sioux che lo avrebbero considerato uno stregone non esistendo per loro né la parola “arte” né artista, cosa che magari sarebbe piaciuta a Tintoretto più – come si direbbe ora – un performer del pennello che un pittore.

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