L'Adorazione dei pastori di Caravaggio

Voleva fare il medico. Il suo paziente si chiama Caravaggio

Andrea Ballarini

Insieme a Daniela Storti, Valeria Merlini lavora da trent’anni nel campo della conservazione e cura delle opere d’arte. E del Merisi ha restaurato ben tre capolavori. Qui svela tutti i segreti del mestiere

Da piccola Valeria Merlini voleva fare il medico. Così mi dice quando mi riceve nel suo bellissimo laboratorio di restauro in via del Gesù, nel pieno centro di Roma. E invece ha finito per diventare una delle più importanti restauratrici italiane, insieme alla sua socia, Daniela Storti con cui da trent’anni divide le giornate e il lavoro e con la quale ha restaurato, caso probabilmente unico al mondo, ben tre Caravaggio.

 

 

Valeria Merlini (foto via Facebook)

 

La persona a cui devo l’essermi appassionata all’arte è stato un mio professore di disegno e storia dell’arte dei tempi del liceo, il professor Brogli. Erano anni particolari, fortemente politicizzati e insegnare storia dell’arte quando a pochi metri di distanza si organizzava il corso di molotov non doveva essere una cosa facile. Il professor Brogli però andava per la sua strada e rimandava a destra e a manca con una nonchalance prodigiosa. In quegli anni feci anche il mio primo viaggio da sola in Grecia, dove vidi Delfi, il Partenone, l’Eretteo e altre meraviglie che avevo conosciuto solo sull’Argan in foto

Un giorno il professor Brogli mi dice: ‘Merlini, guarda, dal punto di vista artistico sei uno zero, però copi bene. Potresti fare la restauratrice’

di tre centimetri per tre. Mi esaltai moltissimo e cominciai a fare dei disegni a china pieni di ombre di cui andavo particolarmente fiera. Un giorno il professor Brogli passa vicino al mio banco e mi dice: ‘Merlini, guarda, dal punto di vista artistico sei uno zero, però copi bene. Potresti fare la restauratrice’. Io ci rimasi malissimo, ferita nel più profondo dell’ego, però cominciai a incuriosirmi di questo mestiere di cui non avevo la benché minima idea. Mi iscrissi ad Architettura. Erano tempi confusi, in cui si facevano esami di gruppo e tantissime elucubrazioni pseudointellettuali e così l’idea di fare qualcosa con le mani, qualcosa che si poteva toccare, mi rassicurò molto e mi consentì anche di affrancarmi da una dimensione puramente intellettuale, per cui forse non provavo neppure un particolare interesse. Così cominciai a preparare l’esame all’Istituto centrale del restauro e intanto, visto che bisognava fare un’esperienza pratica, cominciai a girare per i cantieri della Valnerina del dopo terremoto: erano i primi anni Ottanta. Nel frattempo restai in contatto con il professor Brogli finché visse, di cui divenni la più grande gioia, perché credo che sia il sogno di ogni docente quello di riuscire a infilare qualcosa nella testa di un’adolescente confusa che le cambi la vita. Passai l’esame e, piano piano, scoprii che il restauro non era poi così lontano dalla mia idea primitiva di fare il medico. Il rapporto che si deve instaurare con un’opera d’arte ha più di un’affinità con quello che si stabilisce tra medico e paziente. In primo luogo ci vuole una grande confidenza di base, affinché tutti i problemi vengano trattati nel modo più franco e diretto possibile, ma dopo l’intervento, nonostante la conoscenza si spinga ormai fino alle pieghe più riposte, deve tornare a esserci un po’ di distacco; altrimenti si confondono troppo i piani. E questa è anche la ragione per cui da anni cerco di coinvolgere gruppi sempre più ampi di persone nei restauri, perché un rapporto così totalizzante e intimo come quello che si stabilisce con un’opera d’arte di cui si conosce ogni segreto è un privilegio che nessun museo potrà mai dare con questa assenza di filtri. E in questo modo si finisce anche per conoscere la dimensione umana degli artisti”.

 

Mediamente – continua Valeria Merlini – nel corso dei secoli gli artisti sono stati degli artigiani pagati molto male. Con qualche eccezione, ovviamente. Bernini ha fatto la vita del gran signore, ma Borromini, tanto per fare un paragone dei più ovvi, che valeva quanto e forse più di lui, è vissuto al bordo dell’indigenza per quasi tutta la vita. Fare l’artista era un lavoro d’artigiano che diventava arte solo nel momento in cui veniva compreso il valore dell’opera realizzata. Anticamente gran parte dell’arte aveva lo scopo di comunicare un messaggio e proprio in questo strettissimo sentiero tra le regole dell’iconografia e i

Il rapporto che si deve instaurare con un’opera d’arte ha più di un’affinità con quello che si stabilisce tra medico e paziente

dettami della committenza si collocava l’interpretazione personale e la cifra artistica dell’autore. Già nel Rinascimento il rapporto tra committente e artista ha subito una certa evoluzione, ma comunque a parte Raffaello e pochi altri fortunati, la gran parte degli artisti ha sempre fatto una fatica del diavolo a campare. Pensare che molti pittori venivano pagati a parte per i colori (l’oro o l’azzurro, per esempio) fa capire bene quanto la loro opera fosse ritenuta artigianato. Oggi non ne abbiamo più idea perché ora l’artista produce quel che pensa, poi lo vende. E non a caso infuriano le polemiche intorno a certi organizzatori di mostre che orientano gli artisti, come se cercassero delle testimonianze per confermare le loro teorie critiche e non il contrario. Ci sono poi anche dei fatti tecnici che hanno determinato l’allontanamento dell’artista dalla bottega. Con i colori a olio c’era bisogno di qualcuno che macinasse i colori e che li tenesse fluidi, tanto per dirne una. Invece, l’introduzione dei colori industriali ha consentito di dipingere all’aperto. Il che ha creato problemi tecnici non indifferenti, tipo certi Van Gogh che si decolorano, perché i colori del tempo erano diversi da quelli a olio usati per secoli che erano composti di olio di lino e pigmenti. Per questo certi dipinti del Cinquecento stanno decisamente meglio di alcuni dipinti dell’Ottocento. Inoltre ora i pittori comprano le tele già montate. Quando per un restauro noi dobbiamo rifoderare una tela prendiamo la tela nuova, la immergiamo in acqua per ventiquattro ore e solo quando ha perso tutti i tannini, gli appretti e si è ritirata si può utilizzare. Il che significa che un dipinto ottocentesco che non ha mai preso l’acqua è infinitamente più sensibile all’umidità di un dipinto di tre secoli prima e quindi, se si bagna, può subire grossi danni; al contrario un dipinto del Seicento, se si bagna, salvo casi disastrosi, lo puoi sempre recuperare”.

 

“Se l’arte diventasse una componente del vivere quotidiano
e non solo qualcosa che si va a vedere la domenica al museo,
cambierebbe la vita di questo paese” 

 

Mediamente, nel corso dei secoli gli artisti sono stati degli artigiani pagati molto male. Con qualche eccezione, ovviamente

“Oggi gli storici dell’arte studiano troppo poco la tecnica che invece è fondamentale. E questo è un problema che riguarda soprattutto l’arte contemporanea. L’arte classica si regola sulla teoria del restauro di Cesare Brandi. I dipinti del Cinquecento, per dire, sono più o meno fatti tutti nello stesso modo: prendevi la tavola, la assemblavi per bene e facevi riferimento a dei criteri di coerenza storica ed estetica di un certo tipo. Oggi per l’arte moderna è tutto più difficile perché le tecniche sono tutte diverse e materiali organici si sovrappongono ad altri materiali senza alcuna attenzione alla loro compatibilità. Per non parlare dell’influenza esercitata dai circuiti artistici. L’arte è diventata un mondo molto prolifico e molto difficile da governare, poiché è impossibile scrivere una teoria del restauro per una realtà così variegata. Ma qui il discorso si complica e ci porterebbe troppo lontano. In sintesi possiamo dire che quando ci troviamo davanti alla necessità di restaurare un’opera moderna, la problematica tecnica è sempre interessante, l’opera in sé non è detto”.

 

Scusi la domanda un po’ ingenua, ma com’è accaduto che si è trovata a restaurare tre Caravaggio? Lei e Daniela Storti siete un caso unico nella storia, mi pare. “Forse Carlo Giantomassi, il mio maestro, ne ha restaurati tre anche lui. Comunque la cosa è andata così. Non avevo ancora quarant’anni e stavo lavorando nella chiesa di Sant’Agostino, vicino a piazza Navona, e avevo finito di restaurare la cappella di Santa Monica. Era passato di lì Claudio Strinati, il Soprintendente alle

L’introduzione dei colori industriali ha consentito di dipingere all’aperto. Il che ha creato problemi tecnici non indifferenti

Belle arti di Roma, che mi ha detto che gli sarebbe piaciuto che restaurassi il Caravaggio della cappella Cavalletti nella stessa chiesa. Io sul momento non ero certa di aver afferrato e quindi cercai di capire se stesse scherzando oppure no. Poi ho lentamente messo a fuoco questa pazzesca opportunità che di fatto a me e a Daniela ha cambiato la vita. E’ stato un restauro particolarmente importante perché cercando gli sponsor abbiamo subito messo in chiaro alcune cose che allora non erano proprio ovvie, e cioè che chiunque avesse finanziato il restauro della Madonna dei pellegrini avrebbe dovuto anche occuparsi del restauro di tutta la cappella Cavalletti, perché quel dipinto è nato ed è sempre stato lì, quindi non avrebbe avuto senso sistemare un quadro del genere per lasciarlo in una cappella fatiscente. Contestualmente ci siamo anche resi conto di quanta gente venisse a vedere questo dipinto e quanto fosse sentita la devozione nei confronti di quest’immagine, che è una parte importante del rapporto con l’arte. Così abbiamo deciso di compiere il restauro nella cappella stessa. Grazie a un ponteggio con delle grandi vetrate l’opera è rimasta visibile a tutti per tutto il tempo. Ed è stata la prima volta in un restauro pubblico. Era il 1999. In accordo con padre Renzo, il parroco di Sant’Agostino, abbiamo fissato un appuntamento settimanale con tutti gli appassionati nel corso del quale davamo conto del punto a cui eravamo arrivate. Avevamo anche chiesto a Strinati di consentire, visto che si trattava di un restauro pubblico, che si mettesse online la documentazione, in deroga alla legge Ronchey che per due anni la lasciava esclusivamente nelle mani del direttore dei lavori. Allora abbiamo anche fatto la prima radiografia di Caravaggio che due giorni dopo era online a disposizione di tutto il mondo. E questo nel 1999 non era affatto pacifico. A questo proposito facciamo un bel salto in avanti. Anni dopo, quando già avevamo restaurato altri due Caravaggio, ci è capitato di portare il restauro di un grande quadro barocco nell’aula magna del liceo Visconti di Roma in mezzo ai giovani, con molti dei quali poi siamo rimaste in contatto e per i quali siamo diventate dei punti di riferimento. Quando a certi ragazzi americani abbiamo raccontato che a scuola avevamo portato un quadro del Seicento di Luca Giordano, questi sono letteralmente svenuti, perché loro hanno delle scuole meravigliose, con attrezzature tecniche fantascientifiche per i nostri standard, ma un dipinto di un grande maestro barocco non ce l’avranno mai. Perché questa è la nostra cifra nazionale su cui dovremmo puntare tantissimo. Purtroppo però ci sono molte resistenze conservatrici, per cui l’arte sta nei musei e se vuoi te la vai a vedere… e in questo modo rischiamo di perdere un’enorme opportunità”.

 

 

L'Adorazione dei pastori 

Gli storici studiano troppo poco la tecnica che invece è fondamentale. Il problema riguarda soprattutto l’arte contemporanea

“Ma riprendiamo il filo. La prima volta che abbiamo dovuto pulire un tassello di un quadro di Caravaggio io e Daniela siamo state lì due ore in stato catalettico. Quando ti capita di dover fare un lavoro così devi essere molto pronta, devi aver passato molte ore con il quadro e averlo corteggiato a lungo. A volte i quadri possono essere respingenti, e capisci che il tipo di intervento che hai pensato di fare non è quello di cui c’è bisogno. Per esempio, una volta abbiamo restaurato un quadro di Giulio Romano nella chiesa di Santa Maria dell’Anima. Quella chiesa fino a che non stati costruiti i muraglioni del Tevere andava sott’acqua durante le piene e sul dipinto c’erano già dei restauri storicizzati di Carlo Saraceni e Carlo Maratti, così quando abbiamo portato la tavola in laboratorio con la temperatura e l’umidità giusta questa s’è molto irritata. E le tavole quando si incazzano si incazzano davvero, non è un modo di dire. Tanto che io cominciavo a pensare di essere diventata matta: vedevo dei sollevamenti che poi il giorno dopo non c’erano più, ma ne vedevo altri. Insomma, ci siamo rese conto che tavola si muoveva a una velocità folle. Diceva il mio maestro che se la tavola non la capisci ti fa piangere. Così abbiamo dovuto aumentare molto l’umidità e poi lentissimamente l’abbiamo ridotta. In un caso del genere si entra in una relazione in cui l’opera su cui stai lavorando deve accettare il tuo intervento. Medico, paziente. E non c’è mai niente di ovvio in questo rapporto. E poi bisogna tenere conto che ogni opera d’arte è unica, un caso a sé”.

 

Il secondo Caravaggio mi ha dato forse più soddisfazione, perché il primo poteva essere anche in parte fortuna. Il secondo invece era un Caravaggio molto poco noto, perché apparteneva alla famiglia Odescalchi ed era anche molto complesso, perché su tavola. Inoltre era molto grande e aveva una storia incredibile, perché è stato eseguito per la chiesa di Santa Maria del Popolo: quelli che vi si trovano adesso, La conversione di Saulo e La crocifissione di Pietro, sono stati eseguiti da Caravaggio in un secondo tempo. Infatti sul documento di committenza si trova che i dipinti originali non sono mai stati esposti per via della morte del committente. Queste prime versioni sono state allora vendute e dopo quattro anni il pittore le ha rifatte. Una cosa che non si era capita subito. Le opere sono passate in più mani e in Spagna si sono separate. Quella prima versione de La crocifissione di Pietro è il sacro graal di tutti i caravaggisti, che sperano non sia stata distrutta. La conversione di Saulo, invece, è tornata in Italia ed è diventata Balbi Odescalchi come dote di matrimonio. Ed è quella che abbiamo restaurato noi. E’ un dipinto unico perché è un olio su tavola di cipresso e Caravaggio non amava le tavole. Nella storia dell’arte c’è un salto in cui si passa dalla tempera su tavola all’olio su tela, che avviene quando ci sono i telai adatti a tessere le tele, una cosa su cui non ci si sofferma spesso a ragionare. Le prime tele sono una rivoluzione che diventa una vera, grande rivoluzione quando si abbandona la tempera e si passa all’olio, che è molto più brillante e infinitamente più elastico. Da allora si poté arrotolare una tela di tre metri per tre e trasportarla facilmente. Cosa che non poteva avvenire con una tavola pesantissima, per non dire quanto erano difficili da combattere i tarli con i mezzi dell’epoca. Con le tele nasce quindi anche la possibilità di produrre più copie dello stesso dipinto. In ogni caso noi siamo state molto fortunate perché abbiamo restaurato tre Caravaggio che sono altrettante tappe fondamentali della sua carriera”.

 

La “Conversione di Saulo” della Collezione Odescalchi  

 

Il Caravaggio Odescalchi è contemporaneo delle opere di San Luigi dei Francesi, quando il pittore era al top del suo successo pubblico e segna l’inizio della sua affermazione presso la committenza pubblica. Osservando il Martirio di San Matteo si percepisce il desiderio di creare molto movimento, che poi il Merisi capirà non essere la sua cifra. Nelle successive opere la staticità diventa più essenziale e tutto quello che è scena scompare fino a stringere la focale sull’episodio miracoloso veicolato dall’uomo. Che è quello che gli interessa. Processo che arriva a compimento nel terzo Caravaggio della nostra vita, anche se succede già nella Madonna dei pellegrini del 1605, che è una sintesi pazzesca di un’iconografia complessa. L’Adorazione dei pastori è un’opera emblematica della fine della vita del grande pittore. Anche se rispetto alla Resurrezione di Lazzaro o alla Santa Lucia è un po’ più serena, un po’ più sospesa, è comunque un quadro in cui la parte in ombra è sempre più preponderante e il raggio di luce che colpisce lateralmente la Vergine è il punto d’arrivo della sua tecnica della lama di luce. Qui la Madonna è soprattutto una donna sfinita dal parto e il Cristo è quasi di spalle, il che è incredibile per l’iconografia del tempo. Tutta l’attenzione è su di lei che prova il dolore della nascita, ma senza la gioia, perché ha già premonizione della perdita del figlio. E San Giuseppe e i pastori sono sgomenti come se comprendessero l’importanza dell’evento a cui stanno assistendo, mentre lei è solo stanca, estraniata”.

 

Valeria, cosa vorrebbe fare da grande nel suo mestiere? “Io vorrei rifare ancora l’esperienza di portare il restauro in pubblico per offrire a più persone il privilegio di instaurare un rapporto così speciale con l’opera d’arte. Peraltro la relazione con il pubblico è un’esperienza importantissima e arricchente anche per chi esegue materialmente il restauro perché rende più permeabile questa materia misteriosa: una disciplina molto complessa ma molto facile da spiegare. Molti restauri sono stati fraintesi, tipo quello della Cappella Sistina. Perché se tu hai un ricordo nella tua testa e quel dipinto lo hai immagazzinato in un

La perdita dello sguardo reverente non deve togliere nulla all’ammirazione. C’è bisogno di una maggiore confidenza con l’opera

certo modo, quando lo rivedi dopo il restauro hai uno choc; la prima impressione è sempre di disagio, solo col tempo puoi cambiare il tuo giudizio. Ho dei colleghi che si vantano: dieci anni per restaurare un Raffaello; una cosa che va bene per épater le bourgeois, ma a me la domanda che viene da fare è: perché ci hai messo così tanto? Oltre tutto hai sequestrato per un decennio un’opera che è nata per essere veduta. Se io potessi sempre far vedere quello che faccio, invece di mostrare il prima e il dopo, sono certa che si capirebbe subito la ragione di certe scelte. L’ossidazione è come guardare attraverso un vetro sporco, toglie tutti i toni e la prospettiva, appiattisce tutto. Se potessi rendere più pubblico il mio lavoro, sarebbe bellissimo: ciò conferirebbe all’opera d’arte un ruolo culturale e sociale veramente importante. Se l’arte diventasse una componente quotidiana della vita e non solo una cosa che si va a vedere la domenica al museo cambierebbe radicalmente la vita di questo paese. Il cambiamento può avvenire solo attraverso i sogni, la fantasia, l’immaginazione e l’arte può farlo come nessun politico potrà mai. Nei musei per esigenze pratiche convivono opere che sono state concepite per luoghi diversi, e poi il vetro, l’altezza che non è mai quella giusta... tutto questo toglie tantissimo. Per questo ora vanno di moda le experience, perché se non altro ciò consente di entrare dentro le opere. Operazioni giuste, non giuste? Non so. Certo non sono sostitutive. In ogni caso i puristi si sono scandalizzati”.

 

Decidemmo che il restauro della ‘Madonna dei pellegrini’ doveva andare di pari passo con quello di tutta la cappella Cavalletti

“Noi siamo abituati a vivere in mezzo a una ricchezza enorme a cui non facciamo neppure più caso, ma contemporaneamente non abbiamo alcuna possibilità di entrare in rapporto con essa, se non nei modi stabiliti. Fondamentalmente al museo, dove tutto è un po’ mummificato. Se non usciamo dalla brutalità della progressione storica non andiamo da nessuna parte. Da noi la concezione della cultura è un po’ antica, a volte perfino polverosa; del resto basta confrontare un saggio anglosassone e uno italiano e si capisce bene cosa intendo dire. Va bene evitare la volgarizzazione, ma c’è modo e modo. Semplificare il linguaggio non significa travisare, ma rapportarsi in maniera corretta con il pubblico. Io posso spiegare anche a un bambino che se dipingo su tavola devo fare delle fette di un tronco e assemblarle, ma poi devo sapere che il legno si modificherà solo nel senso della fibra, perché non può fare diversamente, e quindi devo dipingere sulla parte che diventerà convessa in caso di imbarcamento, perché il colore ha l’elasticità che gli permetterà di resistere; nell’altro senso si solleverebbe e cadrebbe. E’ difficile da spiegare? Non credo. Ma non è meno scientificamente corretto. Tutto questo ti mette in rapporto con l’artista in una maniera diversa. La perdita dello sguardo reverente nei confronti dell’opera d’arte e dell’artista non deve togliere nulla all’ammirazione. C’è solo bisogno di una maggiore confidenza con l’opera, derivante da una maggiore conoscenza. In questo periodo storico non felicissimo si sta perdendo il valore delle competenze, che invece è imprescindibile. Ma le competenze devono anche essere condivise altrimenti, come si dice a Roma, pijano d’aceto”.

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