Aridatece il fotoromanzo

Maurizio Stefanini

Baci, lacrime e passioni prima delle telenovelas. Un genere letterario bistrattato e pure molto amato. Nato settant’anni fa in Italia, in questi giorni la Francia lo celebra con una mostra

Ifotoromanzi sono nati in Italia giusto settant’anni fa, ma li celebrano in Francia, con una mostra a Marsiglia: aperta da pochi giorni, si può visitare fino al 23 aprile. “Hanno avuto una cattiva stampa”, esordisce il relativo catalogo. Per la sinistra erano uno strumento del capitalismo per rimbecillire le masse, anche se nel 1949 l’allora 27enne Enrico Berlinguer da segretario dell’appena ricostituita Federazione giovanile comunista italiana aveva dedicato proprio “alle ragazze che leggono Grand Hôtel” la prefazione a un’antologia edita dalla stessa Fgci. “Si dice anche, fra di noi – e molti, non lo nascondo, se ne rammaricano – che molte siano le ragazze, anche tra quelle politicamente più evolute, che hanno in Grand Hôtel la lettura più appassionante”, riconosceva. “Si esagera, forse, e, in ogni caso, non si considera e non si comprende quanto difficile sia oggi, per una ragazza, avere una scelta felice nel gran mare di mercato librario che è grande nella quantità quanto insufficiente e povero nella qualità e nella varietà. A meno che non si pretenda – e noi non pretendiamo di certo, perché sappiamo comprendere le ragazze e perché giovani siamo anche noi – che le ragazze leggano solo di filosofia o di catechismo”.

 

Fanno "sognare qualcosa che non appartiene al nostro mondo per impedirci di aprire gli occhi", scriveva Enrico Berlinguer

Insomma, prometteva il futuro teorico del compromesso storico, “non è davvero nelle nostre intenzioni negare alle ragazze il diritto di scegliere le loro letture, di appassionarsi ad avventure o a vicende d’amore”. Dopo la lisciata, però, l’ammonimento: “Alle volte, in chi scrive quelle avventure, in chi immagina quelle storie di amore, vi è l’intenzione di farci palpitare per le avventure di altri, di farci sognare qualcosa che non appartiene al nostro mondo per impedirci di aprire gli occhi, di unirci, di operare per rimuovere insieme gli ostacoli che impediscono a tante ragazze di conquistarsi un loro avvenire, portare a compimento il loro sogno d’amore, di avere tutte la loro famiglia e di raggiungere la loro felicità in una società che più non conosca, per i pochi, il privilegio, il lusso, il capriccio e, per i molti, l’umiliazione, lo scherno, la miseria”.

 

Ma anche la chiesa cattolica li considerava immorali, salvo poi Famiglia Cristiana utilizzare proprio la tecnica del fotoromanzo per illustrare alcune vite di santi. Naturalmente, ai bambini i fotoromanzi erano vietatissimi. Ma invece in questa mostra è prevista proprio un’attenzione speciale per le visite scolastiche. “Il pubblico scolastico non ha conosciuto l’età d’oro del fotoromanzo”, spiega Marie-Charlotte Calafat, una delle due curatrici della mostra. “Non immagina certamente l’infatuazione popolare che il fotoromanzo ha suscitato negli anni 1960-70”. Gli anni in cui in Italia le ragazze coprivano le pareti delle loro stanze con i poster di divi come Franco Gasparri, Jean Mary Carletto, Nuccia Cardinali, Adriana Rame, Michela Roc, Katiuscia, Claudio De Renzi, Gianni Vannicola, Alex Damiani, Franco Dani, Sebastiano Somma, Claudia Rivelli: quest’ultima sorella di quella Francesca Romana Rivelli che, di cinque anni più giovane, per sfondare al cinema senza l’ingombro di quel cognome già famoso avrebbe scelto lo pseudonimo di Ornella Muti. Marie-Charlotte Calafat spiega anzi che una visita a una mostra del genere oggi è perfino educativa, trovandosi il fotoromanzo “all’incrocio di diverse arti”: il cinema, il fumetto e la fotografia. “Noi siamo quotidianamente immersi nella fotografia, che è un’arte largamente diffusa”. I ragazzi possiedono dunque i codici di lettura per percepire, attraverso le immagini, “l’evoluzione della società e delle mentalità nel corso del XX secolo. Il soggetto stesso dell’esposizione, il fotoromanzo, è un supporto pedagogico allo stesso tempo originale e efficace”.

 

E sì che gli intellettuali, su tutti, li demonizzavano come espressione di cattivo gusto e di incultura. “Sapere”, famoso programma educativo della Rai anni Sessanta e Settanta, in una storia del romanzo d’appendice ne riconosceva un’evidente parentela: sia nella tecnica del racconto a puntate; sia nei toni strappalacrime. Ma poi spiegava che mentre da Victor Hugo a Eugène Sue e Alexandre Dumas o Charles Dickens i grandi autori del feuilleton erano stati alfieri dell’emancipazione delle classi popolari e avevano implicitamente denunciato le ingiustizie sociali, i fotoromanzi invece “addormentavano le coscienze”. Ogni tanto, però, qualche intellettuale ne copiava la tecnica per fare qualche esperimento avanguardista. Da ultimo, adesso li esaltano addirittura come un’icona della cultura mediterranea. Tant’è che li espongono al Mucem: quel Museo delle civiltà dell’Europa e del Mediterraneo che è stato inaugurato a Marsiglia nel 2013 quando la città fu capitale europea della cultura, e che nel 2015 è stato premiato dal Consiglio d’Europa. Sede: il Forte Saint-Jean, fatto edificare dal Re Sole sui resti di un ospizio dei Cavalieri Ospedalieri, e in seguito carcere della Rivoluzione francese e centro di addestramento della Legione straniera.

 

All'incrocio di diverse arti (cinema, fumetto, fotografia), fa percepire l'evoluzione della società e delle mentalità nel XX secolo

Proiezione mediterranea, allestimento transalpino, ma a partire soprattutto da un “tesoro” nostrano. Vediamo ad esempio i due giovani teneramente abbracciati che si baciano appassionatamente su un tappeto di foglie morte: un’immagine che potrebbe essere senza tempo, non fosse per quella brillantina di lui, quella crocchia di lei, quelle giacche e quel plaid che ci danno una datazione inconfondibilmente pre- ’68. Infatti è un fotogramma del 1967: più precisamente un’immagine di “Gioventù delusa”, pubblicato sul numero 1.043 di Bolero Film. Poi c’è un uomo in camice da medico che dà a un collega un cazzotto in posa particolarmente plastica, davanti a un letto d’ospedale e a un’infermiera che si mette una mano davanti alla bocca in un gesto tra lo spavento e la sorpresa. E questa è da “Il figlio rubato”: sempre Bolero Film del 1967, ma numero 1.060. Altro bacio appassionato, con un lui in giacca e cravatta: Bolero Film 675 e qui siamo al 1960, “Qualcosa che si chiama onore”. Altra immagine da “Gioventù delusa”: una donna buttata a terra che piange, ma su un tappeto e con un tailleur, una borsetta e un paio di tacchi alla Audrey Hepburn che forse sarebbero più ancora anni Cinquanta che Sessanta. Tutto tratto da “Le trésor de Mondadori”, come viene appunto definito. L’“impressionante fondo” con la collezione assolutamente inedita degli archivi fotografici di Bolero Film, che ha dato all’altra curatrice dell’esposizione Frédérique Deschamps la folgorazione da cui è nata questa iniziativa.

 

Dopo una premessa dedicata ad alcune anticipazioni, dal “Tesoro Mondadori” parte il percorso espositivo che poi nella prima parte continua con quel “Nous deux” che è stato il più importante magazine di fotoromanzi francesi e con il fotografo Thierry Bouët. Nella parte seconda ci sono poi i percorsi in parte autonomi di “avatar e dirottamenti”: il fotoromanzo erotico-nero, quello comico-satirico, quello onirico-surrealista. Forse perché meno si ricorda di meno, sembra assente quel filone del fotoromanzo in costume storico che pure fra anni Cinquanta e Sessanta circolava. “Gli incensurati” era un film del 1961 in cui Peppino De Filippo per soddisfare i dispendiosi capricci della moglie a un certo punto si improvvisava tra l’altro Mosè in una improbabile versione fotoromanzata dei “Dieci Comandamenti”. Sono evoluzioni che comunque non hanno mai raggiunto la popolarità del fotoromanzo sentimentale. “Milioni di negativi”, spiega la Dechamps sul “Tesoro Mondadori”. “Un fondo tanto più eccezionale se si pensa che gli originali serviti per l’elaborazione dei fotoromanzi sono stati raramente conservati e archiviati, non essendo mai stati considerati come una forma d’arte”. E invece secondo lei “le immagini della collezione Mondadori sono di una grande qualità tecnica. Portatrici di una estetica molto padroneggiata, esse sono formalmente prossime all’estetica che si ritrova nel cinema del dopoguerra italiano, il neorealismo”.

 

La tiratura era cresciuta dall'1,6 milioni di copie dagli anni 50 agli 8,6 milioni del 1976 (5 milioni solo per il gruppo Lancio)

Eh sì. In francese li chiamano “roman-photo” o “photo-roman”. In spagnolo si parla di “fotonovela” o di “fotohistoria”: termine quest’ultimo che è passato anche al portoghese. E questa terminologia latina è essenziale perché, spiega sempre il catalogo, “se il genere è stato inventato in Italia, ha conosciuto molto rapidamente un successo crescente ed è stato esportato in numerosi paesi del bacino mediterraneo e dell’America del Sud”. Se in Francia nel 1957 il magazine di fotoromanzi “Nous Deux” vendeva un milione di copie a settimana, in Italia la tiratura era cresciuta dall’1,6 milioni di copie dagli anni Cinquanta agli 8,6 milioni del 1976, di cui 5 milioni per le sole riviste del gruppo Lancio. “Al contrario”, osserva sempre il catalogo, “i paesi anglosassoni non sono stati toccati da questo gusto per il fotoromanzo. Di cultura protestante, il rapporto con i racconti per immagini vi è più complicato”. L’avete capito allora perché Famiglia Cristiana aveva poi finito per riscattarli?

 

Tuttavia il termine esiste anche in inglese: “photo comics”; ma si dice anche “photonovels” e perfino “fumetti”, col termine che in italiano viene invece usato per quel che nella lingua di Shakespeare sono i comics. E in tedesco sono i Fotoroman o Fotocomic. Ma la lingua in cui furono inventati è appunto la nostra, a partire da quel primo fotoromanzo che uscì l’8 maggio del 1947 su Il mio sogno, “settimanale di romanzi d'amore a fotogrammi”, la parola ancora non è stata creata, edito dalla Editrice Novissima di Roma, di proprietà di un Giorgio Camis De Fonseca socio della Rizzoli. Prima storia: “Nel fondo del cuore” su soggetto di Stefano Reda, giovane giornalista appassionato di letteratura. La seconda fu invece “Menzogne d’amore” su soggetto di Luciana Peverelli, affermata scrittrice di romanzi rosa. Con Bolero Film la Mondadori rispose quasi subito, il 25 maggio del 1947. In realtà i due progetti erano maturati più o meno in contemporanea… Il tipo di trame era stato anticipato dal Grand Hôtel della prefazione di Berlinguer, lanciato dai fratelli Del Duca l’anno prima: ma lì le storie erano ancora disegnate, come nel fumetto tradizionale.

 

Il 1947 è anche l’anno in cui Giuseppe De Santis ebbe la prima idea di “Riso amaro”. Era un film di denuncia sociale, però si svolgeva con toni forti tra il fotoromanzo e il Gran Guignol. E lo stesso voluto equivoco era giocato sugli shorts inguinali ante litteram e sulle calze nere di Silvana Mangano: allo stesso tempo costume da mondina più che filologico, ma addosso a un’attrice con quel fisico anche esplosiva icona sexy. Insomma, fino a quel momento il neorealismo aveva entusiasmato i critici, annoiato il pubblico e inferocito quei politici che come Giulio Andreotti si preoccupavano per l’immagine all’estero dell’Italia in ricostruzione. Quando due anni dopo “Riso amaro” uscì, sbancò il botteghino: prima tappa di quella contaminazione tra avanguardia cinematografica e gusto popolare che poi nella ulteriore combinazione di neorealismo e commedia dell’arte di “Pane, amore e fantasia” avrebbe definitivamente lanciato il boom della commedia all’italiana.

 

Rapporti stereotipati, ma proprio le passioni da fotoromanzo partecipano alla rimessa in causa del matrimonio borghese

Si sa ormai che il neorealismo in origine quegli scenari dal vero, attori non professionisti e pellicole scadute li aveva inventati solo per la spaventosa povertà di mezzi del dopoguerra: ma gli stessi intellettuali che avrebbero disprezzato il fotoromanzo ne erano stati folgorati. E’ abusivo pensare che anche l’idea di realizzare fumetti di foto sia nata da esigenze di risparmio del genere? Be’, chi aveva scritto i soggetti di “Sciuscià”, “Ladri di biciclette”, “Miracolo a Milano” e “Umberto D.”? Cesare Zavattini: lo sanno tutti. E chi aveva avuto con Mondadori l’idea di lanciare Bolero Film? Sì: sempre Zavattini. Anche se questo è molto meno noto. E sapete chi fu a dirigere i primi set di “Il mio sogno”? Damiano Damiani: il futuro regista della “Piovra”, che un po’ fotoromanzo non è che non lo sia. Insomma, la parentela tra uno dei generi cinematografici che la cultura alta ha più amato e uno dei generi narrativi che più ha disprezzato è sorprendentemente stretta! L’uno e l’altro egualmente figli di quell’Italia del dopoguerra affamata di rinnovamento e di benessere. “Il fotoromanzo nasce in Italia proprio dopo la Seconda guerra mondiale e risponde alla domanda di evasione e di sogno di tutta una generazione marcata da un conflitto lungo e doloroso”, spiega il catalogo. C’erano state varie anticipazioni: da alcuni tipi di cartoline che all’inizio del ‘900 proponevano storie a puntate al fumetto. Ma il fotoromanzo nasce in un momento “in cui la fotografia trova un posto sempre più grande nei giornali e nella letteratura. Sinonimo di modernità, la fotografia offre ai lettori di fotoromanzi un sentimento del reale: leggere una storia incarnata non più da personaggi disegnati ma da persone vere rinforza l’empatia, l’identificazione e la proiezione presso il lettore”.

 

La crisi viene poi negli anni Ottanta, nel momento in cui la tv commerciale ormai spalmata sulle 24 ore in una varietà di canali mette a disposizione una offerta di soap operas e telenovelas i cui personaggi in movimento sono ancora più reali di quelli statici delle foto. Nel frattempo, però, il fotoromanzo ha accompagnato l’evoluzione dei costumi. “A un primo approccio il rapporto uomo/donna nei fotoromanzi è estremamente stereotipato, la salvezza della donna passa soprattutto attraverso l’incontro amoroso”. Ma in realtà proprio le passioni da fotoromanzo “partecipano alla rimessa in causa del matrimonio borghese”, fino alla rivoluzione dei costumi degli anni Settanta. “Questa società che stava cercando nuove forme di riorganizzazione della coppia, della sessualità e dei figli, ha improvvisamente considerato che l’amore era prigioniero e che niente poteva essere più bello che liberarlo”. Parole di Marcela Iacub: saggista franco-argentina famosa non solo per i suoi scritti nel campo del femminismo e della bioetica, ma anche per quella relazione con Dominique Strauss-Kahn da lei poi portata in piazza in un libro per cui poi lo stesso DSK l’avrebbe citata in tribunale. Spiega sempre Marcela Iacoub, “il fotoromanzo ha dunque attivamente partecipato a questo immenso movimento di rimessa in causa del matrimonio borghese al fianco delle femministe, dei sessuologi, della pianificazione familiare, degli intellettuali”. Insomma Bolero Film e Grand Hôtel hanno finito per essere più rivoluzionari delle antologie in cui Berlinguer li criticava.

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