Armando Testa, foto di Gemma De Angelis Testa (1980)

Che Testa l'Armando!

Michele Boroni

Al Mart di Rovereto una mostra celebra, a 100 anni dalla sua nascita, il più artista tra i pubblicitari e il più anomalo tra gli artisti  

“Viviamo in un mondo in cui le immagini sono e saranno sempre più intense, e il pubblico giocherà ad accostarle e a viverle in pluri maniere. Questo è il futuro dell'uomo nell'era dalle immagini”. 

Così parlò Armando Testa, uomo del novecento, durante un'intervista Rai alla fine degli anni 70 con in testa l'immancabile cappellone da cowboy. Con il suo accento spietatamente torinese e attraverso parole e concetti semplicissimi, l'artista e padre della pubblicità italiana non solo portava avanti i concetti della pop art, ma costruiva una società dei consumi libera da mille ideologie e sovrastrutture, basata sul divertimento e sul gioco e, in qualche modo, preconizzando i 'meme', i filtri Instagram e le storie di Snapchat, pur non avendo vissuto nemmeno la nascita di internet.

 

Pippo, l'ippopotamo della Lines (1966) 

 

Perché Armando Testa (1917- 1992) non è stato solo il pubblicitario dei Caroselli, creatore di mille personaggi (da Pippo Ippopotamo a Papalla), immagini iconiche (la silhouette del Digestivo Antonetto, l'elefante Pirelli con lo pneumatico al posto della proboscide) e modi di dire (“Chiamami Peroni, sarò la tua birra” “E la pancia non c'è più”) che hanno reso le réclame italiana degli anni 60 e 70 qualcosa di unico e di irripetibile, ma fu anche, e sopratutto, un artista semplice e visionario.
Testa è stato il più artista tra i pubblicitari e il più anomalo tra gli artisti, in quanto fu il primo autore capace di esprimersi simultaneamente in tutti i codici espressivi della comunicazione visiva, dalla pittura alla pubblicità, dalla grafica al design, passando dalla televisione fino all'architettura (la sede in Via Luisa del Carretto ricordava l'inquietudine metafisica delle opere di De Chirico); una versatilità e una naturalezza nel cambiare le regole del gioco che lo rende vicino alla ricerca di alcuni artisti contemporanei più recenti.

 

Carmencita e Caballero (1965)

 

Ed è proprio sull'Armando Testa artista a cui è dedicata, a 100 anni dalla sua nascita, la bella personale al Mart di Rovereto intitolata “Tutti gli 'ismi' di Armando Testa” (fino al 15 ottobre) che ci permette di percorrere la sua originale ricerca artistica, differenziandosi da altre mostre a lui dedicate (come ad esempio “Il design delle idee” presentata al PAC di Milano nel 2010): in questa nuova personale anche le campagne pubblicitarie, specialmente quelle più sperimentali, sono infatti inserite in un percorso tematico più di carattere artistico piuttosto che di comunicazione tout court.

 

Veduta dell'allestimento al Mart (foto Jacopo Salvi)

 

Gli 'ismi' in questo caso sono proprio i modernismi (il dinamismo del Futurismo, la composizione dell'Astrattismo, i paradossi visivi del Surrealismo e gli scarti semantici del Dadaismo) a cui Testa attinge senza un vero e proprio atteggiamento ideologico, ma solo in quanto portatori dei valori di semplicità e sintesi. Così ecco che le linee essenziali riprese da Mondrian, le strutture di matrice funzionalista che rimandano ai Bauhaus e le altre avanguardie artistiche si sposano con una dimensione ludica e infantile che parla direttamente al nostro inconscio sottoforma di manifesti, pubblicità tv, sculture e dipinti.

 

Veduta dell'allestimento al Mart (foto Jacopo Salvi)

 

“Sono nato povero ma moderno” amava dire, ma la sua non era una battuta ad effetto, bensì una condizione reale: suo padre, ex carabiniere, muore quando aveva poco più di 11 anni e la sua famiglia, composta dalla madre e tre fratelli, viveva a Torino senza mezzi di sostegno. Così a 13 anni lascia la scuola e va a lavorare come apprendista operaio in una fabbrica di ferri battuti; ma il lavoro si rivela troppo pesante per un ragazzino, quindi a 14 anni decide di guadagnare di meno ma di investire nel futuro, impiegandosi come compositore tipografo. Di giorno lavora e di sera frequenta la scuola tipografica Vigliardi Paravia dove impara a impaginare libri d'arte, che diventa la sua principale passione.

 

Arriva la guerra e viene arruolato come primo aviere fotografo: trascorre parte dei cinque anni del servizio militare in Africa, ed è proprio qui che una notte sotto le stelle, con il suo immancabile quaderno per gli schizzi, decide che una volta in Italia sarebbe diventato un pubblicitario. Torna a Torino e vince un concorso per il logo dello Spumante Martini e in seguito inventa il ciclista Superga e il logo dell'ICI (Industria Colori Inchiostri Milano). Testa usa un linguaggio ricco di idee e riesce a conquistare consenso in un periodo in cui la pubblicità in Italia non è ancora una vera e propria industria. L'agenzia Armando Testa nasce nel 1956, dove ci lavorano 6 persone. E anche se tutti guardano a Milano, lui continua a restare attaccato alla sua Torino silenziosa, umile e lavoratrice. Esplora linguaggi nuovi, guarda all'America, impara a comunicare con il cinema, studia la tecnica di Walt Disney.

 

L'anno dopo la nascita dell'agenzia parte Carosello, lo spazio degli sketch commerciali ideati dalla Rai pedagogica e moralista di quel tempo, e che si trasforma in una ghiotta opportunità per un creativo pubblicitario come lui. La struttura di questi sketch (non si chiamano ancora spot) imponeva al filmato pubblicitario dopo i titoli di testa di non alludere, per circa 135 secondi di storia, né al nome né al genere di prodotto pubblicizzato e solo nei 25 secondi finali (il “codino”) svelare il marchio e convincere il pubblico a comprare. Ed è proprio qui che Testa riesce a dare il meglio di sé stesso: il pubblicitario torinese gioca con l'indipendenza di questa due componenti, a volte organizzando il tutto come un indovinello, altre volte riuscendo a tirare fuori il puro e magico nonsense di cui è maestro indiscusso.

 

Tra i vari “caroselli” mostrati all'interno della mostra ce n'è uno che è archetipico, ovvero quello per i Wafer Saiwa. C'è una fila indiana di una dozzina di uomini dall'atteggiamento compunto e che con gesti, versi e mosse simula il comportamento di un treno che percorre un territorio innevato; c'è anche un addetto che durante una fermata alla “stazione” martella le caviglie, come i ferrovieri usavano fare ai vecchi convogli per controllare la tenuta delle giunture meccaniche. In questo carosello per i wafer non c'è nessuna base linguistica, nessun gioco di parole o apparente connessione pseudologica - i wafer fanno andare come un treno? o forse è la forma del wafer vista come tanti elementi attaccati, come i vagoni di un treno? Forse, ma non viene dichiarata. Trattasi invece di puro nonsense, un gioco non svelato ma che era assolutamente coerente con l'assenza di relazione richiesta tra i due elementi costitutivi del carosello, lo sketch e il codino. Testa aveva capito quanto il nonsenso fosse inerente a quel tipo di comunicazione e invece di cercare un nesso logico, preme sull'acceleratore dell'incongruo. Scrive a tal proposito Stefano Bartezzaghi sul catalogo della mostra “Con il gioco, il sogno, l'arte e la follia, la pubblicità condivide la capacità di farci uscire dall'economia dei nostri consumi di tempo: l'obbligo di essere pertinenti, efficaci, conseguenti. Il nonsense è un lusso: la fatica più umana di tutte è quella di dare senso e sopportare l'eccesso di senso delle cose, così il nonsensista Testa fa per noi la fatica di toglierne: preordina una situazione che elude qualsiasi logica e al momento in cui ci si aspetterebbe di sapere perché quegli uomini seriosi stanno fingendo di essere un treno, elude anche quelle attese e ci dà il nome del prodotto”. Ecco quindi che la pubblicità diventa come un gioco dei bambini, quello del “facciamo che”, pura leggerezza, senza la pesantezza del didascalismo e del razionale.

 

Punt e Mes Totem (1960)

 

In generale tutte le pubblicità uscite fuori dalla creatività di Testa negli anni '60 non si limitano alla costruzione di un vero e proprio piano narrativo né tanto meno celebrativo del prodotto oggetto della comunicazione commerciale, ma elaborano una trama per catturare l'attenzione dello spettatore sollecitandone l'inconscio – anzi, il pre-conscio come Freud aveva inteso a proposito del comico come “atto creativo liberatorio”. In questo caso le associazioni, le sostituzioni e le metafore hanno lo scopo di incantare e gratificare la proiezione dello spettatore nella dimensione del miraggio (la bionda Peroni nel deserto del Sahara), del sogno o della fantasia infantile di mondi in cui gli animali parlano (Pippo Ippopotamo) e le forme primarie di personaggi sferici (Papalla) prendono vita e conquistano la nostra fiducia.

 

“La massima aspirazione di un creativo è raggiungere a 60 anni la libera creatività che aveva a 6 anni” diceva Armando Testa e in questo si avvicinava molto al Picasso della celebre frase “Ho impiegato una vita per dipingere come un bambino”. La dimensione ludica è una costante della creatività testiana, che coinvolge lo spettatore (e non il consumatore) a un recupero delle proprie istanze primarie, liberandolo dalle logiche e strutture adulte per attingere all'immaginario bambinesco, grazie a un continuo smascheramento del piano di realtà convenzionale.

Basta vedere i lavori basati sul cibo. Qui Armando Testa sembra davvero divertirsi come un bimbo che ha rovesciato sul tappeto la sua scatola dei Lego: il cubetto dell'emmenthal che diventa un televisore, il prosciutto come un telo di rivestimento di una poltrona, la mortadella che diventa un scala con le screziature del marmo. Con Testa la natura morta riprende vita: i ravioli sono cuscini su cui riposano due olive che rappresentano le teste di amanti sopra una coltre di pasta, le forme di parmigiano si trasformano in chiare scogliere che si affacciano su un mare azzurro, peperoncini che diventano “spadaccini infiammati”. Molte di queste intuizioni degli anni '80 diventeranno poi una lunga campagna seriale per la catena di supermercati Esselunga, che dura tutt'ora con nuove invenzioni anche testuali. Cibi e oggetti che fanno fanno parte del nostro vivere quotidiano che si trasformano in straordinario.

  

Senza Titolo 1967-1985  

 

L'arte e la pittura rimangono sempre un riferimento fisso per Testa – al punto di insegnarle prima in un liceo artistico e poi al Politecnico di Torino, da qui l'appellativo “Il Professore” che non l'avrebbe mai più lasciato - in particolare l'amore per tutte le linee essenziali e le forme primarie come la sfera (Punt&Mes, l'invenzione visiva che traduce nelle forme del solido geometrico e una semisfera “il punto d'amaro e mezzo di dolce” dell'espressione dialettale che dà al nome al celebre vermut della Carpano), il triangolo (il tedoforo delle Olimpiadi Roma 60 ispirato alla pittura di Sironi) o il cono (Caballero e Carmencita, straordinari personaggi senza braccia e gambe girati a “passo uno”, fotogramma per fotogramma, novità assoluta per gli anni '60). Ma forse il suo capolavoro – almeno per chi scrive – è dato dalla serie di lavori di scultura e disegno sulla croce, in cui l'elemento superiore è reclinato, come se il legno avesse acquisito la postura dell'uomo che vi è stato crocifisso “Ho sempre amato la croce per la sua bellezza formale e per la sua forza strutturale al di là del significato religioso che l'accompagna, è uno dei segni più elementari creati dall'uomo” racconta lo stesso Testa “Ho cercato di trasformare questo segno assoluto in un emozione, alludendo al capo reclinato di Cristo sulla croce, un'immagine che vive da circa 2000 anni nella memoria dell'uomo”. Una cristologica metonimia che conferma la formidabile immaginazione di Testa nel rendere in forma semplice la complessità, attraverso una geniale simbiosi tra significato e significante, contenitore e contenuto. Testa e Croce.

 

Un altro studio artistico su cui la mostra del Mart di Rovereto pone un doveroso accento è quello che ha come soggetto le dita: separate dal corpo, astratte e autonome, simbolo dell'atto stesso di dipingere e anche di un saper fare manuale e pratico. Una piccola ossessione quella per la raffigurazione delle dita (“caratterizzata da una bellezza formale decisamente superiore all'orecchio” diceva) che gli proviene probabilmente dal lavoro in tipografia in cui si componeva ancora a mano: piccoli disegni di grande ricchezza inventiva e cromatica dove il dito umano è spesso accoppiato al suo doppio e che subisce un'ininterrotta metamorfosi attraverso gli stili più diversi, dagli acquarelli ai dipinti in acrilico.

 

Dito coccodrillo (1991)

 

Ma quello che emerge da questa esposizione è anche l'Armando Testa persona, grazie anche ai molti schermi sparsi nello spazio a lui dedicato che trasmettano interviste al pubblicitario-artista. Ne esce una persona allegra, curiosa, estremamente vitale pur nella sua torinesità, grande osservatore delle piccole cose della quotidianità attraverso un occhio singolare. Come ricorda la moglie Genna de Angelis Testa, co-curatrice della mostra insieme a Gianfranco Maraniello “Il suo obiettivo era quello di comunicare con tutti, farsi capire e arrivare sia al cuore della gente comune sia all'intellettuale. Per questo parlava ininterrottamente con i tassisti e i camerieri riempendoli di domande, ma a differenza di suoi colleghi pubblicitari non visitava i supermercati per esigenze lavorative, ma preferiva frequentare gallerie d'arte e musei. Era uno scatto in più che gli consentiva di comunicare proprio con tutti e di proporre al suo pubblico immagini che gente avrebbe potuto vedere solo nelle gallerie d'arte. In pratica insegnava al pubblico tramite la grafica pubblicitaria quello che l'arte, generatrice di fantasie, voleva esprimere”.

Un altro, ennesimo, elemento che ci fa capire l'origine della grandezza dei suoi lavori e dell'importanza che hanno avuto sottotraccia nel plasmare la cultura estetica italiana, addirittura prima dell'avvento del post-moderno.

Di più su questi argomenti: