Gli impostori della cultura si nascondono dietro due parole: Creatività e Pensiero

Alfonso Berardinelli

La scomparsa dei critici spiegata dalla fine della critica

Uno dei più ridicoli pregiudizi che avviliscono le redazioni culturali dei nostri giornali è quello che vieta di commentare quanto si scrive negli altri supplementi-libri. Le giustificazioni di una tale consuetudine sono ispirate sia dalla gelosia concorrenziale che da uno scrupolo di omertà: ragazzi, non dobbiamo fare pubblicità a quello che scrivono gli altri! Ma non bisogna nemmeno criticarli perché si offenderebbero e (non si sa mai) potrebbero fare altrettanto con noi! Insomma: meglio non smuovere le acque, meglio non disturbare.

 

Mentre in politica siamo uno dei paesi più sterilmente e viziosamente litigiosi del mondo, quando si tratta di cultura il primo comandamento è “non giudicare” i gusti e le opinioni altrui. La cultura viene trattata come un valore per definizione, anche quando i suoi prodotti valgono poco o niente. Un presupposto c’è: gli intellettuali e gli artisti sono sempre pronti a considerare come censura indebita ogni tentativo di critica: e la censura, si sa, non è democratica…

 

Ora, andrebbe detto che se c’è un segno sicuro di decadenza culturale è proprio questo: la tacita, diffusa, tremebonda insofferenza per la critica. Il risultato è che mentre tutti pensano o sospettano, perfino a torto, che ogni politico sia sostanzialmente un impostore, perché promette molte cose che non farà mai, il mondo culturale è invece gremito di impostori spesso non considerati tali, perché evidentemente una certa dose di impostura appare normale e soprattutto non sembra educato parlarne in pubblico.

 

Faccio solo due esempi: l’impostura artistica, che è diffusissima, passa attraverso l’idea che l’arte è libertà e qualsiasi puttanata, liberamente concepita ed espressa, è per principio un valore da difendere poiché esemplifica quel valore, indiscutibile in sé, chiamato Arte. L’impostura filosofica passa invece attraverso l’idea che i filosofi hanno l’esclusiva, il monopolio del pensare essenziale e profondo, il quale per definizione va oltre, va al di là di ciò che appare e comunemente si vede a occhio nudo: i filosofi vanno al fondo delle cose, rovesciano il senso comune e dunque hanno il diritto di parlare senza farsi capire.

 

Ma se chiunque può guardare con sicura soddisfazione un Caravaggio o un Goya, è vietato chiedersi se nelle opere esposte alla Biennale di Venezia ci sia qualcosa che si può guardare, o se invece non si riesce a capire dove mettere gli occhi. Posso leggere Platone (l’essenzialista) e Kierkegaard (l’esistenzialista) capendoci qualcosa, ma quando arrivo agli esistenzial-essenzialisti di scuola Heidegger, o ai guastatori di ogni essenza in stile Derrida, non so più né che cosa dicono, né perché lo dicono: e proprio in quel modo che ostacola la comprensione.

 

Concluderei così: l’impostura culturale sembra pane quotidiano tra i critici d’arte e i filosofi, perché si autogarantiscono con la ragione (o con la scusa) che vanno prese sul serio, comunque si presentino, le cose di cui loro in generale parlano: la Creatività e il Pensiero.

 

Sull’ultimo numero della Lettura del Corriere, si può notare il modo in cui un brillante critico d’arte ancora giovane e “aperto a tutto”, come Vincenzo Trione, sia costretto a eccedere in interpretazioni fantasiose e infine pubblicitarie pur di neutralizzare un tentativo non immotivato di demolizione critica. Leggo nel suo articolo (intitolato “Il fantasy è la nuova forma dell’arte contemporanea”) queste parole: “L’imponente personale veneziana di Damien Hirst. Se ne è discusso molto. Molti osservatori l’hanno analizzata solo come un evento eccessivo, neo-barocco. Ad esempio, un critico autorevole come Robert Storr ha interpretato la mostra – allestita nelle sedi di Punta della Dogana e di Palazzo Grassi – solo come l’esito del lavoro di una personalità furba, la cui ambizione consisterebbe non nel ‘lasciare il segno nella storia dell’arte’, né nel ‘criticare con la satira i valori e le istituzioni dell’arte’, ma ‘più semplicemente (nel) lasciare il segno nella storia della finanza’”.

 

Trattandosi di un bel tipo come Hirst, quelle che dice Storr mi sembrano le prime cose da dire. La reazione di Trione è invece quella di attutire, di smorzare e con il massimo di cautela rovesciare un giudizio negativo in un’apologia. Scrive Trione: “E' davvero così? Occorrerebbe portarsi al di là di certi moralismi, per provare a leggere le nuove opere di Hirst in una prospettiva diversa. Dinanzi a noi non è solo un’esposizione debordante e kitsch, specchio di un monumentalismo enfatico e di una ‘volontà di potenza’ retorica, ma anche (forse soprattutto) lo storyboard di un (possibile) kolossal cinematografico… Vi si trovano a convivere linguaggi diversi (disegno, scultura, installazione, fotografia, video) che si combinano e si rimodulano. Punta della Dogana e Palazzo Grassi sono trasformati nel set di un film epico (…) Hirst qui ci invita a farci spettatori di una fiction iperpop”.

 

Bel colpo. Hirst è salvo, ma non so se ne avesse bisogno: a salvarsi occupando con la sua opera Dogana e Palazzo Grassi ci aveva già pensato lui… e quanto a prezzi, non ha mai scherzato.

 

Con apparente cautela (“forse”, “possibile”) il critico d’arte censura e liquida la critica di Robert Storr come “moralistica”, con il tipico colpo basso di tutta la novecentesca critica d’avanguardia, secondo cui l’arte e l’artista sono sempre al di là della morale. Infine propone un’interpretazione trasfigurante che cerca di farci vedere una megapop installazione prima come un film epico e poi, citando l’intoccabile Tolkien, come una specie di opera letteraria. Sembra che la critica d’arte esista soprattutto per evitare la critica di precise opere d’arte, regalando agli autori di successo un successo che hanno già e aggiungendo qualcosa: quel carattere transartistico che li renderà inattaccabili da ogni punto di vista. Chi potrà mai dire che un’installazione è un brutto film o uno scadente romanzo?

 

Non ce l’ho certo con l’amico Trione. Il rischio di impostura e di apologia, anche inconsapevoli, è sempre dietro l’angolo per noi che usiamo il linguaggio dell’interpretazione applicandolo all’arte e alla letteratura di oggi. Voglio dire che le parole della critica ormai nobilitano oggetti che molto spesso non meritano di essere nobilitati. Quando la qualità della produzione culturale tende ad abbassarsi oltre un certo limite, noi critici, manovrando le tradizionali categorie dell’interpretazione, fingiamo di parlare di opere che nella percezione comune neppure esistono.

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