Piazza Grande, Festival del cinema di Locarno

A Locarno i registi americani sono in pace col cinema

Mariarosa Mancuso

Il grande mistero di questa edizione è Benchetrit

Dopo anni di festival, l’esperienza insegna. Quando serve una via di fuga – al Locarno Festival, in questo caso – sfogliamo il catalogo cercando un film made in Usa. Non deludono. E sono diretti da registi in pace con il cinema. A differenza degli europei, che del loro contenzioso con l’arte cinematografica menano gran vanto, gli americani non odiano il cinema, non vogliono reinventarlo ogni volta che scrivono una sceneggiatura, non trovano antiquate le trame e neppure i personaggi, non sognano di torturare l’incauto spettatore che speranzoso si avvicina.

  

Nascosto nella sezione “Cineasti del presente” – il secondo concorso, per film non abbastanza meritevoli del concorso e basta, in teoria dovrebbero pure essere più sperimentali – abbiamo scovato “Person to Person”, scritto e diretto da Dustin Guy Defa: gente che va e gente che viene in una New York meno scintillante del solito. All’origine c’era un corto con lo stesso titolo, 18 minuti celebrati sul New Yorker come una short story magnificamente costruita (chi ama l’americanissimo genere sa che la brevità non basta, sono più difficili da scrivere di un romanzo, lo sapeva già Edgar Allan Poe). Trama: un giovanotto dà una festa, e la mattina dopo trova in salotto una sconosciuta che rifiuta di andare via. La versione lungometraggio racconta altra gente un po’ strana: la giornalista al primo giorno di lavoro in cronaca nera, il cacciatore di vinili che ha trovato una rarità, una ragazzina fidanzatissima e un’altra ancora indecisa su quel che le piace, un riparatore di orologi che spinge via il film dal ghetto generazionale.

  

Niente di nuovo. Niente, si intende, oltre alla capacità di osservazione, al gusto per le battute, alla bravura con gli attori, alla curiosità per il mondo. Aiuta a far la pace con il cinema, dopo un paio di colpi bassi inferti dal Locarno Festival. Mentre gli americani fanno il loro onesto mestiere – l’altro titolo notevole era il noir losangelino “Gemini” di Aaron Katz, con Zoe Kravitz e Lola Kirke – i francesi non perdono occasioni per dimenticare i fondamentali. Le presidenze cambiano, a Obama succede Trump, Emmanuel Macron spazza via Hollande. I caratteri nazionali cinematografici restano fissi, come se nulla fosse successo. Non è solo questione dei tempi necessari per un film, non ancora maturati: è l’eccezione culturale a far danni, con la complicità dei direttori di festival.

  

Noémie Lvovsky era una dialoghista e regista di talento, quando scriveva le sceneggiature per il film di Valeria Bruni Tedeschi e quando girava “Les sentiments”. A Locarno ha portato “Demain et tous les autres jours”. Un delirio a due tra una madre separata in preda alla follia e una ragazzina che per fare fronte al disastro parla con un gufo (lui risponde con la voce di papà Mathieu Amalric). In “Madame Hyde” di Serge Bozon Isabelle Huppert fatica a tenere la disciplina nella sua classe - abbiamo appreso che gli studenti francesi dell’istituto tecnico usano ancora schizzare inchiostro sulle camicette bianche delle professoresse. Colpita da una scarica elettrica mentre traffica in laboratorio si trasforma nella Wonder Woman del liceo. Onde conquistare – alla scienza e alle gabbie di Faraday, che vi viene in mente? – l’allievo riottoso della banlieue.

  

Batte bandiera francese anche “Chien”, che Samuel Benchetrit ha tratto da un suo libro con lo stesso titolo. Il grande mistero del Locarno Festival, pure proiettato in Piazza Grande, quindi a favore di pubblico pagante. Comincia con un chihuahua spiaccicato sull’asfalto da un camion, e sembra promettere se non altro un po’ di black humour. Sbagliato: è una meditazione sul cane bastonato. Un poveretto lasciato dalla moglie – “il dottore mi ha detto che sono allergica a te”, dice Vanessa Paradis nella prima scena, senza che lui le risponda “stronzi tutti e due” – si fa adottare da un nazista che lo obbliga a camminare su quattro zampe, gli insegna a riportare la pallina, lo chiude in gabbia. Novanta minuti punitivi, pieni di pretese e ricatti pseudo-artistici. Lo spettatore esce ringhiando.

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