Giovanni Sartori (1924-2017) - foto LaPresse

Era impossibile essere d'accordo con Giovanni Sartori. Ci mancherà

Giuliano Ferrara

Fu un raro esempio di genio matto. È morto scettico, a 92 anni, carico di meriti e di riconoscimenti, e dell’amore dei suoi antagonisti

Sono rari coloro di cui quando muoiono puoi dire che avevano un talento ai limiti del genio e per questo, appunto per questo, erano un po’ matti. E di cui puoi dire che ti mancheranno perché non riuscivi quasi mai a essere d’accordo con loro, e appunto per questo. Giovanni Sartori (1924-2017) era uno del novero. Era un grande politologo, manuali, trattati di successo mondiale, accademia impeccabile, faceva scuola, come si dice, ma offriva l’impressione, ed era in questo snob e ammirevole, che la politologia fosse una variabile del giornalismo, inteso nel senso alto e nobile, non ornamentale, di una riflessione umanistica sulla vita reale di nazioni, istituzioni e sistemi politici. Non solo perché scriveva bene, era pieno di risorse fiorentine, montanelleggiava come l’altro, suo amico, sartoreggiava. E’ che se inventava formule icastiche capaci di dire tutto e rinviare all’essenza fiorita di una cosa morta come una legge, il Mattarellum per esempio, lo faceva per quel gusto ostinato della prevalenza polemica, dell’esclusività culturale, del vernacolo antiaccademico, che solum era suo. Comunicare, bistrattare in modo irridente e sboccato, individuare il Cretino Collettivo nell’Homo videns, per esempio, era una sua specialità non di politologo ma di soggetto politico diretto, era il suo modo di esercitare una cittadinanza e una faziosità felice che nessun bollo scientifico poteva restituirgli. Faceva scuola anche così, e sopra tutto insegnava a pensare nella contraddizione più spudorata.

 

Diceva che il multiculturalismo in Europa è una frescaccia, e da molto tempo, da prima che risultasse evidente oltre ogni dovere di prova, ma poi esortava a non far figli, a dare figli al mito del futuro, offrirli in sacrificio all’esaurimento famoso delle risorse d’acqua del pianeta, cose dei primi anni Settanta dette dal Club di Roma, e gigioneggiava con i vari riscaldamenti della terra e le varie apocalissi prossime venture, incurante del fatto che la demografia dell’occidente e della democrazia moderna è troppo negativa mentre quella dei facitori di cinque figli, gli islamici, è troppo positiva. La Fallaci era un talento matto anche lei, anche lei tanto fiorentina, ma quando la rabbia e l’orgoglio scagliate contro la resa multiculturale le esplosero in petto, bè, divenne una fogliante e si mise con noi al seguito di Camillo Ruini, di Ratzinger e delle battaglie pro vita. Tra mangiar preti e mangiare ayatollah bisognava scegliere. Quando si contraddiceva tanto platealmente secondo me Sartori rideva. Adorava i salotti, almeno come la sua casa di New York, le sue passeggiate, i bassotti dei Bassetti (di cui diceva, a vederli scivolare sul ghiaccio di Sankt Moritz, che i bassotti dei Bassetti sono alticci). Aveva un gusto machiavelliano della commedia, era sempre a un passo dalla Mandragola, dalla farsa anticlericale di uno spiritaccio non sottomesso e non devoto. Era un burbero senza pentimenti, adorava spaventare con dottrina e stile, si prendeva il successo planetario, il premio Principe delle Asturie che vale due Nobel, e l’affetto e il corteggiamento delle signore con eguale dignità e scompostezza. Che tipo.

Il Mattarellum non gli piaceva perché era a un solo turno. I due turni elettorali erano la sua fissazione di scienziato tra le nuvole, Sartori o il Vanni era anche questo. Fosse stato completato con l’eliminazione della quota proporzionale, il Mattarellum sarebbe stato perfetto, e comunque diede finché resistette al paese le premesse di una stabilità di governo per i nostri usi e costumi addirittura pazzesca. Il primo governo di legislatura, un Berlusconi a dispetto del dispitto di Sartori verso il conflitto di interessi, si realizzò con il Mattarellum. Poi venne il Porcellum, perché chi troppo vuole nulla stringe, e stiamo ancora a leccarci le ferite in attesa del doppio turno. Una volta un suo interlocutore gli disse beffardo in un salottone romano che non sono le leggi elettorali ma gli elettori a votare, e sono loro che decidono alla fine. Lo guardò con simpatia per la bravata, mista però a un caritatevole disprezzo accademico. Sotto i baffi pensò che, se fosse davvero così, il suo mestiere sarebbe stato inutile, ma non voleva che la politologia dottrinale, in cui credeva fino a un certo punto, fosse bellamente coglionata. Era tra l’altro un talento dell’autoironia, che lo riconoscesse o no.

 

Un’altra delle sue contraddizioni così montanelliane e così fiorentine fu il suo anticomunismo. Che era di caratura eccezionale, e che negli anni Settanta del compromesso storico tra Dc e Pci lo portò a navigare dalle parti di Edgardo Sogno e delle sue paure partigiane, con tanto di emigrazione in America per evitare la peste del pluralismo svuotato dall’accordo tra le grandi forze popolari, come si diceva allora. Indro è morto nel comunismo dell’apparenza, tra le bandiere rosse e le manette che furono imposte al suo ricordo, lui muore scettico, a novantadue bellissimi anni, carico di meriti e di riconoscimenti, e dell’amore dei suoi antagonisti, come si addice a un laico autorevole ma senza pretese.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.