Pronti per la Trexit

Fabiana Giacomotti

Il mondo glamour e patinato non ha mai tollerato il presidente Trump. Potrebbe costargli caro

Un po’ non ce ne siamo accorti, impegnati come siamo in altre faccende (sfilate, convegni, presentazioni nel mio caso); un po’ leggiamo poco le riviste straniere, soprattutto quelle patinate che, come nel caso specifico di Vanity Fair Usa, possono arrivare a toccare i dieci euro di prezzo di copertina. Però, in effetti, è da qualche giorno che l’editoriale del direttore, il celeberrimo Graydon Carter, contro Donald Trump, si trova anche su internet, debitamente trascritto e commentato fra le foto della copertina, l’altrettanto celeberrima “Hollywood issue” che viene realizzata ormai da vent’anni da Annie Leibovitz in tempo per la serata e la festa che accompagna gli Oscar. “A pillar of ignorance and certitude”. La cosa fantastica è che sebbene il titolo sia privo di soggetto, è del tutto ovvio chi sia, il “pilastro di ignoranza e di sicurezza di sé”. A scorrere le righe, pare che all’inizio di gennaio, il presidente eletto avesse chiesto di incontrare i direttori del gruppo in via strettamente confidenziale. Quel che è successo, e che Carter racconta con sofisticate tecniche retoriche è sufficiente a inchiodare per sempre Trump al ruolo dal quale cerca vanamente di smarcarsi da trent’anni: quello del parvenu, del cafone rimpannnucciato di Molière, del César Birotteau balzacchiano e di tutte quelle patetiche macchiette che l’America costruita sul mito del self made man non conosce o, per meglio dire, non vuole riconoscere anche quando potrebbe intuirne il tasso di perniciosità, oltre che il ridicolo.

 

Pur puntando il dito contro lo smantellamento dell’Obamacare, è infatti sulla figura del presidente che si concentra l’editoriale di Carter, sulla sua personalità. Gli atti sono (anche) simboli, colpisci il simbolo e ne renderai grotteschi gli atti; nessuno lo sa meglio del direttore di un giornale che vive di glamour e di immagine. “(Trump) Parla sempre amorevolmente di un unico soggetto: se stesso. Ha usato un’intera campagna per parlare della grandezza delle sue vittorie, del numero dei suoi follower su Twitter, l’eccellenza del suo giocare a golf (…) In quella gabbietta di pensieri confusi che è la sua testa, si accumula un pensiero vago dopo l’altro (…) e un totale disinteresse non solo per le notizie sconosciute, ma anche per quelle di pubblico dominio. Lo scrittore Michael O’Donoghue diceva che la follia è inversamente proporzionale al tempo in cui si scopre che il soggetto ha mentito: meno tempo ci vuole, più sei da curare (…) Abbiamo eletto un bambinone senza freni alla più alta carica del paese. L’infantilismo della sua risposta alle critiche misurate di Meryl Streep contro la sua imitazione offensiva del reporter disabile del New York Times Serge Kovaleski avrebbe già dovuto farci preoccupare. Poi ha lanciato insulti a un’icona dei diritti civili come John Lewis. Quali sono i suoi limiti? Trump è sempre stato un pessimo perdente. Ma da quando ha vinto le elezioni, questo azzimato narcisista sta dimostrando ogni giorno di essere anche un pessimo vincitore (…) Tutti i cittadini del Winsconsin, della Florida, del Michigan e della Pennsylvania, che gli hanno regalato la vittoria, credono davvero che la sua amministrazione di miliardari, di ex banchieri, di partigiani della deregulation e di paladini del riscaldamento globale metteranno loro al primo posto invece dei solo sodali?

 

Questa è la via maestra per un’infinità di eccezioni, di deroghe, di conflitto di interessi e di corruzione, al tempo stesso morale e finanziaria, che sarà seguita da una lunga strada verso la ‘Trexit’, la cacciata del presidente dalla Casa Bianca. I populisti come Trump si intrufolano negli uffici con le bugie. Ne saranno buttati fuori dalla verità”. La volta in cui Melania finì su Vogue Nell’America che conta e che vuole contare, mettersi contro il gruppo Condé Nast è una pessima idea per una quantità di motivi, fra le quali le copertine di Vogue America (Trump fece il diavolo a quattro anni fa per far fotografare la moglie Melania in abitone da sposa Dior sulla copertina, e fu l’unica apparizione della sua carriera di presunta top model su una rivista elegante).

 

Graydon Carter, canadese naturalizzato americano, cofondatore del celeberrimo foglio satirico Spy, non fa solo parte di quell’establishment in cui Donald Trump ha cercato in ogni modo di entrare, venendone sempre rifiutato, ma governa per via familiare e di relazioni metà del mondo mediatico. Direte voi, chissenefrega. Non si vive di sola Martha’s Vineyard e della sapienza nell’affiancare bauli giapponesi antichi e poltroncine di vimini vittoriane, è vero. Però è anche vero che il gruppo Condé Nast appartiene alla storia dell’America da quando Lady Astor organizzava il famoso ballo dei Quattrocento, cioè dei quattrocento nomi più importanti d’America, e si permetteva di dire a Winston Churchill, incerto su come mascherarsi per uno dei suoi ricevimenti, di “venire sobrio”, ché sarebbe già stata una bella trasformazione. Un gruppo che da oltre mezzo secolo è controllato da una delle più potenti famiglie sioniste d’America, i Newhouse (da Neuhaus).

 

Ha legami con tutte le major di Hollywood e domina il mondo del lifestyle: turismo, moda, design, alta cucina, letteratura e entertainment (The New Yorker, Vanity Fair appunto). Sarà mica una caso se a dicembre, quando Carter demolì la cucina del nuovo ristorante di Trump nella sua torre dorata di New York, il Trump Grill, il (non ancora) presidente lanciò uno dei suoi tweet più velenosi, che caddero come molti altri nel vuoto, perché se l’elettorato medio di Trump non cena al Grill, quello che lo osteggia potrebbe pure, volendo, spinto da una recensione giusta. Una stroncatura dal gruppo Condé Nast equivale a veder sparire la clientela migliore. Ma gli arbitri del gusto, all’apprendista dello stile hanno detto definitivamente di no: “You’re fired”.

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