Un momento dell'Internazionale socialista a Cartagena

L'Internazionale socialista è viva e lotta contro Trump

Maurizio Stefanini

Il XXV congresso di Cartegena, in Colombia, cerca "cure" contro il sovranismo europeo e rispolvera la “terza via” di Blair

“Bisogna fare da diga contro il populismo, evitando di cadere nell'isolazionismo di muri, dogmi e  violenza”. Così il XXV congresso dell'Internazionale socialista riunito dal 2 al 4 marzo a Cartagena de Indias, in Colombia, ha preso una posizione forte contro i differenti, ma convergenti, spettri di trumpismo, chavismo, lepenismo e grillismo. “L'ondata di populismo che impregna il discorso politico attuale”, la Brexit, l'arrivo di un “Big Brother” alla Casa Bianca, il cambio climatico e il rischio che per l'occupazione può comportare la robotizzazione sono stati indicati tra le grandi sfide che la sinistra mondiale deve affrontare. Li ha sottolineati nel suo discorso introduttivo il presidente Yorgos Papandreu, ex primo ministro greco ed esponente del partito greco Pasok, che è stato appunto ridotto ai minimi termini di fronte all'irruzione populista di Syriza, che poi a sua volta non è riuscita a mantenere pressoché nessuna delle promesse che aveva fatto in campagna elettorale. Molti tra i 350 partiti e movimenti che hanno mandato delegati a questo congresso si trovano di fronte a un dilemma. Da una parte, accettare di essere sorpassati come prima forza di sinistra da un nuovo concorrente populista, una sorte che dopo il Pasok in Grecia rischia di correre anche il Psoe spagnolo di fronte a Podemos. Dall'altra, essere trascinati a loro volta verso l'estremismo, col rischio di cadere comunque nell'irrilevanza, come successo ai laburisti britannici di Corbyn e ai socialisti francesi con Hamon. A sua volta il presidente colombiano e premio Nobel per la Pace, Juan Manuel Santos, nel rivolgere il suo saluto ha rievocato la “Terza Via” di Tony Blair, per combattere polarizzazione e radicalismo.

 

Mentre l'Internazionale socialista si riuniva in Colombia, a poca distanza, a Caracas, il presidente venezuelano Maduro convocava i leader dell'Alba, da Raúl Castro a Daniel Ortega ed Evo Morales per il quarto anniversario della morte di Hugo Chávez. Sia la celebrazione sia la campagna lanciata per dimostrare “l'amore del popolo” per il defunto leader hanno avuto luogo in un contesto in cui  71 venezuelani su 100 non riescono a fare tre pasti al giorno e le riserve valutarie si prosciugano a ritmi sempre più vorticosi: 30 miliardi di dollari nel 2011, 20 nel 2015, 10,5 adesso, con 7,2 miliardi di scadenze di debito da pagare entro l'anno. Ma dall'altra parte, l'America latina è in tensione per le decisioni e le dichiarazioni di Trump e Maduro ha parlato appunto di rilanciare l'eredità chavista in nome della difesa dei “diritti dei migranti”.

 

Anche l'Internazionale socialista ha votato una risoluzione di sostegno al Messico, contro “il trattamento dispregiativo che presuppongono le gravi attuazioni e dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti Trump” e contro la sua decisione di “costruire un muro alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti e qualsiasi azione volta a penalizzare economicamente i messicani con l'obiettivo di sostenere il costo di costruzione del suddetto muro”. Al contempo, il congresso ha pure chiesto a Maduro di liberare i 120 detenuti politici venezuelani, lo ha esortato a rispettare le prerogative dell'Assemblea nazionale, di cui sono state cassate tutte e 19 le leggi che ha approvato da quando è controllata dall'opposizione, e ha pure condannato le restrizioni legali che Evo Morales ha posto ai danni del leader dell'opposizione, Samuel Doria Medina, cui è stato addirittura impedito di recarsi a Cartagena. Significativamente il partito di Medina è stato ammesso all'Internazionale socialista, mentre è stato confermato vicepresidente Henry Ramos Allup, presidente dell'Assemblea nazionale venezuelana.

 

Sulla stessa linea anti-populista sancita all’Internazionale socialista convergono anche i liberali. Mentre in America latina il ciclo populista sta terminando proprio mentre se ne sta diffondendo un altro tra Europa e Nord America, Mario Vargas Llosa ha appena pubblicato sul Pais un editoriale in cui spiega  che “ormai non è più il comunismo il nemico principale della democrazia liberale – della libertà – ma il populismo”. “Il comunismo è oggi una ideologia residuale”, ma al suo posto è sorta “la minaccia populista. Non si tratta di una ideologia ma di una epidemia virale – nel senso più tossico della parola – che attacca allo stesso modo i paesi sviluppati e arretrati, adottando per ogni circostanza maschere diverse”. “Neppure i paesi con tradizioni democratiche ben radicate, come Regno Unito, Francia, Olanda e Stati Uniti, sono vaccinati contro questa malattia: lo provano il trionfo del Brexit, la presidenza di Donald Trump, il partito di Geert Wilders (Pvv o Partito per la Libertà olandese, ndr) e il Front National di Marine Le Pen in Francia”.