Foto di Marc Fuyà via Flickr

Il fascino della spy story nel crudele (ma divertente) romanzo di Johnson

Edoardo Rialti

I misteri africani di “Mostri che ridono” (Einaudi)

"Raccontare finzioni che funzionino non è facile”, notava l’antropologo Yuval Harari ripercorrendo la storia del pensiero umano e il suo nesso con la sottile e pressoché onnipresente arte del gossip. Non ci siamo evoluti solo discutendo di filosofia e politica, ma anche in una complessa e sempre più estesa partita a carte con i nostri simili: quali informazioni segrete condividere, e quali no. Con chi fingere, e di chi invece fidarsi. È uno dei motivi del fascino perenne delle storie di spionaggio, da Odisseo travestito da mendicante a James Bond. Al pari di altre storie, vi si raccontano (e varcano) confini spaziali, politici e morali, vi scrutiamo cuori di tenebra, fattori umani e noccioli della questione, ma sempre allo scopo di farci assistere a un nuovo giro di carte in quell’antica partita. Dove molti hanno qualche trucco nella manica. Lo fa anche Denis Johnson nel suo romanzo Mostri che ridono (Einaudi, tradotto da Silvia Pareschi). Dopo aver vinto il National Book Award ed essere stato finalista al Pulitzer raccontando la Cia o i tossici di provincia, stavolta ci fa percorrere la Sierra Leone, il Congo e l’Uganda insieme a Roland e Michael, un danese naturalizzato americano e un ugandese addestrato dal Mossad: forse si recano a un matrimonio, forse contrabbandano oro e uranio, forse uno dei due sta spiando l’altro.

 

Di sicuro nessuno ha davvero detto quello che sa, o ha in mente: “Ci piace parlare di come il mondo è cambiato dopo il crollo delle Torri Gemelle. Possiamo tranquillamente dire che la parte più cambiata è il mondo dell’intelligence, della sicurezza e della difesa. In quel settore non c’è recessione”. Ogni romanzo che funzioni ti comunica e consegna un mondo, accennato da mille dettagli e che pure supera la mera somma delle parti: qui è un’Africa di connessioni elettriche altalenanti, lamiere martellate dal sole, Medici senza Mutande (per come si tengono vicini ai bordelli) lusso e miseria. Un mondo dove “il mare è caldo come una vasca da bagno. È scuro, non tanto blu quanto nero, un nero lucente. Ti addentri a guado finché non puoi più. Procedi a nuoto finché non puoi più. Poi ti prende”; e dove la bigliettaia del bus prega a voce alta “che quel viaggio non ci uccidesse tutti. Ci invitò a rivolgerci al nostro vicino e ad augurargli la stessa cosa, e noi ubbidimmo, buona fortuna, possa questo tuo viaggio non essere l’ultimo, anche se uno di questi viaggi, di sicuro, manderà tutti noi – o le parti di noi che verranno ritrovate – al cimitero”. Si deve esibire “nel sorriso sofferente ed esausto dell’europeo bianco, l’unica alternativa all’omicidio”, ma facendo molta attenzione perché “in Africa, così mi assicurano gli esperti, il primo morto fa saltare una specie di tappo, e poi non ci si ferma più”.

 

Un mondo incarnato dal misterioso comprimario ugandese, col suo perorare allusivo da stregone tribale. Un romanzo crudele e molto divertente, su ciò che siamo in grado di svendere e ciò che invece cerchiamo di tenerci stretto: “Pensai di buttare via la cintura con la sua sospetta fibbia di metallo, presi in considerazione anche i bottoni della camicia e dei calzoni, mi resi conto che avrei anche potuto girare nudo, ma che certezza avrei ottenuto? C’è sempre qualcos’altro di cui sbarazzarsi. Qualcosa dentro”. Una volta Auden espresse il sentimento di molti lettori, affermando che ci sono personaggi che vorremmo invitare a cena. Non è certo una conquista da poco quella di riuscire a raccontare un pericoloso soldato doppiogiochista che pure è così maledettamente seducente da farti desiderare un viaggio in un autobus cadente, pur di restare insieme a lui. E chissenefrega se sta imbrogliando anche la sua amata fidanzata, e mentendo persino a te, nel Grande Gioco: “Vero o falso, cosa importa? La verità di Michael vive solo nel mito. Nei fatti e nei dettagli muore”.

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