Rileggere Russello

Matteo Righetto

Anticomunista e antifascista, lo scrittore siciliano ha pagato il suo essere poco engagé. Va riscoperto

Autore e narratore donchisciottesco, poliedrico, metamorfico, Antonio Russello è stato senza dubbio uno dei più talentuosi scrittori del nostro secondo Novecento, ma anche uno dei più rapidamente dimenticati se non addirittura del tutto rimossi dalla memoria della critica letteraria nazionale, a eccezione dell’operato di un piccolo Centro Studi a lui intitolato e sito nel suo paese natale e di una particolare e isolata attenzione che qualche anno fa gli dedicò Matteo Collura sulle pagine del Corriere della Sera. Per il resto: damnatio memoriae. Un fatto casuale oppure questo scrittore è stato volutamente sottovalutato e per certi versi boicottato dalla Repubblica delle Lettere? Bisognerebbe chiederlo agli intellò e a tutti gli appartenenti, a vario titolo o sottotitolo, all’establishment che dagli anni Cinquanta a oggi ha suggerito, dettato e decretato successi e insuccessi di scrittori e letterati che si sono avvicendati nel nostro panorama culturale. Russello nacque a Favara nel 1921, ma si trasferì al nord dopo il servizio militare, stabilendosi a Castelfranco Veneto fino alla sua morte, avvenuta nel 2001. Si dedicò incessantemente alla scrittura e alla docenza di Lettere negli istituti superiori, peraltro escogitando e sperimentando nuovi ed efficaci approcci e metodologie didattiche soprattutto per quanto riguarda la Divina Commedia (era solito leggere e spiegare le tre cantiche arricchendo la lezione con suoi disegni e commenti scritti su lunghi pannelli di carta che egli srotolava in classe e attaccava ai muri dell’aula. E sono centinaia i suoi ex allievi che ancora oggi ricordano con emozione le sue lezioni). Fu scoperto da Vittorini nel 1959, quando gli fece pubblicare da Mondadori “La luna si mangia i morti”, un romanzo dalla lingua ricca e finemente pastosa, composta da numerose eppure disciplinatissime figure retoriche, anafore, anacoluti, prolessi. Il romanzo ebbe subito un buon successo commerciale eppure non fu mai considerato notevole dalla critica militante nonostante il suo chiaro e indiscusso valore letterario. Stesso destino per molti altri suoi romanzi, i migliori dei quali, oltre al titolo sopracitato, sono: “La grande sete”, che nelle prime trenta pagine, con le sue straordinarie descrizioni siciliane di una natura nemica e spietata e di una terra arsa come nemmeno l’inferno può esserlo, è degna del miglior Juan Rulfo, ma anche “Siciliani prepotenti” e soprattutto “Giangiacomo e Giambattista” (ri-editato successivamente dal piccolo editore trevigiano Santi Quaranta con il titolo: “L’isola innocente”). E’ un romanzo, questo, di grande originalità, sia per i contenuti sia per la finezza dello stile e della lingua. Un’opera filosofica di grande umanità che presenta Giangiacomo Gibard e Gianbattista Grieco, i due personaggi protagonisti, come due alter ego rispettivamente di Rousseau e Vico, i quali si misurano in un continuo confronto tra diversi modelli educativi e formativi nonché tra differenti concezioni dell’Uomo nella Storia. Un’isola innocente, per Russello, che deve essere custodita nel cuore di ogni uomo: come una visione, un sogno assolutamente necessario che non appartiene soltanto alla precaria filosofia di Rousseau, ma al passare adagio di ogni persona, alla sua speranza di una Gerusalemme celeste.

 

Visioni portentose
Un romanzo magnifico che per molti aspetti sembra appartenere alla tradizione letteraria picaresca spagnola e per altri aderisce invece a una scrittura disincantata e sperimentalista che lascia spazio a visioni portentose. L’autore siculo-veneto scrisse anche numerosi testi per il teatro e molti altri romanzi (per lo più inediti), tutti rigorosamente passati sotto silenzio dopo il primo, immediato successo del ’59-’60. Sciascia pronunciò parole dolci sul suo conto, ma lo fece quasi sottovoce, anch’egli non ebbe mai la volontà di sostenerlo apertamente. Forse, sussurra qualcuno, anche per una naturale invidia nei confronti di un conterraneo di spessore. Antonio Russello frequentò in amicizia Valeri e Comisso, e quest’ultimo, che più volte gli fece visita a Castelfranco Veneto, gli consigliò sovente di non badare a premi né a riconoscimenti ufficiali, ché un “francescano laico” come lui sarebbe sempre stato tagliato fuori dal sistema di allora. E così infatti fu. Intellettuale libero e onesto, liberale e cristiano a modo suo, fortemente anticomunista e antifascista, mai engagé, pagò il prezzo più duro che in questo Paese poteva pagare un intellettuale non allineato. A dispetto del suo talento e della sua grandezza. Eppure, citando proprio una sua frase tratta da “Giangiacomo e Gianbattista”, chiudo dicendo che: “E’ destino delle grandi opere di perdersi sì, ma il Cielo le salva e le fa arrivare in porto”.

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