Theda Bara (1885-1955), attrice, prima femme fatale del cinema americano (foto Wikipedia)

Il torbido Oriani

Matteo Marchesini

Intellettuale stravagante, narratore di razza. In “Vortice” o “Gelosia” scandaloso fino al kitsch. Uno scrittore di un secolo fa da riscoprire

Rinascita dei nazionalismi; nuovi scontri coloniali; “populismi”, e ceti medi declassati; precari degli studi in fuga, con relativa retorica sulla mancata valorizzazione delle eccellenze cerebrali… A volte mi chiedo come si troverebbero oggi, col web a disposizione, certi tipici intellettuali stravaganti della nostra provincia ottonovecentesca, che interpretarono un clima analogo tentando di diventare insieme artisti, profeti e trascinatori di folle, e a cui invece toccò spesso la parte dei matti di paese, dei geni semincompresi destinati a far la spola tra caffè e tipografie modeste, o a marcire nelle anticamere di governanti e pontefici della cultura.

Prendiamo il caso dello scrittore faentino Alfredo Oriani (1852-1909), il quale secondo l’Antonio Gramsci dei Quaderni, pure attratto dalla sua figura come già Piero Gobetti, era una specie di “pseudo-titano” che pretendeva riconoscimenti a priori senza saper combattere davvero per averli, né poter pagare le cambiali letterarie sparse ai quattro venti: un velleitario, insomma, che sognava “la gloria (…) come la signorina sogna il principe azzurro”. Chissà quanti lettori non professionali ha Oriani nel 2017. Pochissimi, credo: da più di mezzo secolo le sue edizioni sono rare, pressoché invisibili, e gli omaggi critici mai clamorosi. La sfortuna che circondò in vita questo romagnolo geniale e arruffone, ma anche il manipolatorio tributo postumo del conterraneo Mussolini, che ne curò l’opera omnia da Cappelli mentre s’impossessava dello stato, continuano a tenercelo a distanza. Arroccato nelle torri di Càsola Valsenio, tra una puntata in biroccio o in bicicletta a Faenza e a Bologna, l’ex allievo del collegio San Luigi si dedicò per decenni a una letteratura eclettica, fluviale, che dovette pubblicare a proprie spese. I suoi difetti pittoreschi sono fin troppo evidenti, quasi sintomi da manuale sociopsichiatrico. Avvocato e politico mancato, autodidatta paranoico e grafomane, in saggi come La lotta politica in Italia (1892) e La rivolta ideale (1908) Oriani evoca buona parte dei miti e delle fantasie di potenza che investivano allora una borghesia e un’ex aristocrazia marginalizzate e rurali: miti e fantasie fermentanti nel confuso nazionalismo dilagato a cavallo tra i due secoli, nell’involuzione crispina del mazzinianesimo, e nel brodo di un anticapitalismo tardoromantico che al culto della forza mescolava una sopravvalutazione perfino grottesca della vita spirituale. L’originalità dell’Oriani ideologo, che nel primo Novecento impressionò un vasto arco d’intellettuali antidemocratici (da Benedetto Croce ai vociani a Mario Missiroli), resta schiacciata sotto la farragine di un’oratoria magniloquente, imprigionata dalle sintesi che sorvolano secoli di storia condensandoli in grossolani emblemi idealistici.

Diverso è il discorso per il romanziere, nel quale i difetti di uno schematismo patetico e violento si rivelano spesso il rovescio di sorprendenti doti intuitive. La sua voglia di scandalizzare è senz’altro inseparabile da certe derive kitsch; ma ciò non toglie che nella rappresentazione degli aspetti più torbidi dell’esistenza, Oriani tocchi vertici singolari di lucidità. Gli dobbiamo alcune delle prove narrative più moderne del nostro ultimo Ottocento. La più famosa è Vortice (1899), storia millimetrata di un suicidio. Siamo in una Faenza descritta con cupa precisione. I suoi loggiati e le sue chiese, le sue campagne e i suoi fiumi, i suoi vicoli e i suoi circoli moderati o radicali, fanno da sfondo al tragico fine settimana di Adolfo Romani, un piccolo-borghese trentenne e sfaccendato, figlio unico cresciuto nell’aspirazione a una vita da signore che non può permettersi. Così, pur sposato e padre di due bambini, Adolfo dilapida i suoi soldi per una cantante di operetta, descritta da Oriani con le consuete tinte eccessive (bocca “sanguinante”, sporcizia, voluttà e rapacità animalesche).

Tornando da Bologna, dove ha cercato invano credito presso alcuni conoscenti, e dove si è stordito vagando per il centro, trova un biglietto in cui un amico impiegato in tribunale gli comunica che è stata portata al pretore una sua cambiale dichiarata falsa. Nel tentativo di trattenere con sé la cantante, il giovane sposo ha infatti commesso anche la sciocchezza di contraffare una firma; e ora, davanti alla prospettiva del processo, decide di uccidersi. Da qui in poi, Vortice è la storia dell’ultima giornata di Adolfo, dei modi in cui la sua mente si dibatte tra l’angoscia e la vergogna, tra la volontà di vivere e l’orgoglio di soccombere senza perdere la faccia in società. Nella nuova condizione di spirito, ogni dettaglio gli si presenta iperrealistico e allucinato come il cavalluccio rotto del figlio che gli appare in sogno: le dispute dei vitelloni da caffè su Bourget e Wagner, un paralitico che canta la Mignon, una biroccia colma di stracci, il pranzo in famiglia della domenica, l’abortita fuga nel sesso a pagamento… Mentre s’avvicina la notte del dì di festa che Adolfo ha scelto per morire, la realtà mostra un volto sempre più espressionistico, più decomposto, e crescono le riflessioni su Dio, la religione, su un male cosmico che sembra irredimibile: “Non vi era gioia nella società, che non fosse un dolore per qualcuno; non nasceva nel mondo un individuo senza essere composto coi resti di altri morti, non si poteva respirare senza uccidere milioni di microbi, senza inghiottirne altri milioni che dovevano ucciderci”. E’ con questi pensieri greco-orientali che Adolfo posa il capo sulle rotaie, aspettando il treno notturno.

Cronologicamente precede Vortice di poco, e qualitativamente di poco lo segue, il romanzo breve Gelosia (1894). Il titolo allude a un tipico triangolo borghese da plot ottocentesco. Solo che qui la gelosia non è quella del marito, ma quella dell’amante. Siamo sempre in una provincia faentina proiettata verso Bologna e Firenze. Il marito è Filippo, avvocato di talento e di successo, dal fisico volgare e dal carattere bonario, che a quasi cinquant’anni ha sposato Annetta, una ragazza dal cattivo gusto adorabile e chiassoso, vivace, vuota e volubile come una bimba – una “testolina rosea e raggiante” che “non avrebbe mai pensato”. A sedurla è Mario, il giovane di studio di Filippo, uomo mediocre, fatuo, che s’interessa solo all’eleganza e che è cresciuto all’ombra di una madre arrivista. Per capire il gusto equivoco di Oriani, basti dire che nel gioco pericoloso e quasi scoperto della relazione clandestina ha una parte importante un amplesso consumato dentro il “gabinetto verde” dello studio, davanti alla foto della madre dell’avvocato. Annetta vive l’adulterio come una delle sue tante distrazioni: senza cattiveria, con qualche superficiale rimorso. Ma Mario, che soffre della propria inferiorità rispetto a Filippo, trasforma il rapporto con lei in un’ossessione. Il puntiglio del geloso diventa tirannia possessiva, e questa tirannia gli fa perdere le migliori chance di carriera e matrimonio. Ormai maniaco, chiede ad Annetta prove sempre più rischiose, che lei, placida come una gatta e affezionata all’avvocato, non vuole concedere. Un giorno, reso folle dall’idea che marito e moglie facciano ancora sesso, trascina addirittura la donna nella camera nuziale, e la schiaffeggia appena intravede una macchia sospetta tra le lenzuola. Finché nasce un bambino, presumibilmente di Mario ma destinato a crescere con Filippo: che diventa deputato, mentre il suo ex giovane di studio, come tanti personaggi “inetti” dell’epoca, rimane paurosamente solo.

Ma prima di queste prove mature, a cui si possono aggiungere il quasi fogazzariano La disfatta (1896) e il quasi zoliano Olocausto (1902), spicca tra le opere di Oriani il romanzo giovanile No, che l’autore firmò Ottone di Banzole (davvero un “ottone”, uno pseudonimo-blasone in falso oro). Scultura appena sbozzata, di grezze forme ma d’irrefutabile valore, No incide con più energia i caratteri femminili che già occupavano la vicenda lesbica del precedente Al di là (1877). Uscito nel 1881, anno dei Malavoglia e di Malombra, non è né un libro verista come il capolavoro di Giovanni Verga né un libro manzonian-medianico come l’esordio in prosa di Antonio Fogazzaro. Il titolo-parola stavolta non suona definitorio ma perentorio: sembra voler esprimere in una sola sillaba tutta la selvatichezza orgogliosa del provinciale che ritorce il rifiuto contro la società che lo rifiuta, e alla quale spera tuttavia ancora di poter strappare un “Sì”. Ma titolo a parte, i personaggi parlano al solito per motti lapidari, altisonanti, o come diceva Emilio Cecchi “per articoli di giornale”, che fanno da contrappunto retorico alle descrizioni più sottilmente sensibili (c’è in Oriani molta di quella teatralità ottocentesca che è in realtà il contrario del teatro, come dimostrano i suoi drammi falliti). Né ci vengono risparmiati i luoghi comuni decadentistici sulla corruzione, scortati com’è prevedibile da un volgare estetismo. Comunque, se il lettore supera l’invadente cattivo gusto dei paragoni bislacchi, che accostano le situazioni più domestiche a fiere feroci e a scatenate forze naturali, sarà ripagato da una trascinante robustezza narrativa, e da un’indagine acuta su temi che nel Novecento non hanno fatto che aumentare d’importanza: a partire dal perverso intreccio tra le tendenze emancipatorie delle categorie emarginate (donne, classi lavoratrici) e la loro tentazione di vincere l’ambiente sociale che le esclude mimando i suoi meccanismi di potere, o addirittura esagerandone i lineamenti più sopraffattori.

Anche qui, due parole sulla trama. In un’Italia insieme provinciale e fiabesca, tra un borgo, una campagna e una città senza nomi, cresce Ida, ragazza di famiglia quasi povera, che ha un padre inconcludente e rinnegato dai suoi parenti borghesi, e una madre gretta e popolana. Da piccola i genitori la trascurano per un fratellino, che però muore. In seguito è educata nella tenuta di Jela, fanciulla nobile divenuta presto una sorella. Poi va in città a studiare da maestra. Ma ormai abituata al lusso, dopo aver sostenuto un esame esaltante strappa il diploma. E’ uno dei tanti, esibizionistici “no” che Ida pronuncia contro il mediocre posto assegnatole nel mondo. Quando torna da Jela, la notte in cui l’ingenua amica deve perdere la verginità col conte suo marito, tenta invano di sottrarglielo. Scoperta, fugge da un duca zio dello sposo, e ne diventa la mantenuta. L’ultima sua vendetta consisterà nel far uccidere in duello il conte che l’ha rifiutata, dopo aver passato con lui una notte d’amore e avere umiliato la moglie Jela, senza perdere per questo l’appoggio dello stregato duca.

Sono molte le scene di una crudezza squallida, morbosa. Già all’incipit, troviamo la protagonista che medica le piaghe della madre malata. Poi c’è la prima esperienza erotica con un ragazzo deforme, che Ida consuma fino a ucciderlo. E verso la fine, assistiamo a una quasi orgia di cibo e sesso. La lussuria, l’“orgoglio smisurato”, la volontà di potenza e la perversità sfacciata della donna nascono da un cuore avido perché arido: sembra che la sua prima infanzia di bambina non voluta le abbia tolto ogni capacità di amare, instillandole una sete insaziabile di rivalsa. Ida crede “solamente a se stessa”. Sogna bovaristicamente glorie “sultanesche”, “tigrine”, e accumula citazioni saccenti. Da ragazza scrive un poema su Nerone, e da mantenuta dorme in una stanza così addobbata da far invidia a Gabriele D’Annunzio. Ecco: è una superdonna dannunziana ante litteram, e del dannunzianesimo evidenzia le origini piccolo-borghesi. Somiglia, in fondo, a un Oriani femmina: ha le stesse titaniche ambizioni di provinciale isolata, la stessa oratoria romagnola di chi usa le idee per nobilitare un velleitario desiderio di riscatto.

Difficile distinguere, in No come altrove, l’autentica spietatezza visionaria dall’esagerazione a freddo dell’intellettuale che urla più forte che può. Eppure la rappresentazione incondita e le ingenuità vistose testimoniano la genuinità di un’urgenza espressiva che contagia subito il lettore, tenendolo appiccicato anche alle pagine più improbabili. Fatte le debite proporzioni, il febbrile, impaziente e convulso Oriani è un “russo” della campagna italiana: per naturale ispirazione, intendo, come su un altro piano Grazia Deledda, e non per moda, come lo fu D’Annunzio quando mise le sue doti di pronto “traduttore” al servizio di vaghe suggestioni dostoevskiane.

Le muse di Oriani, e i demoni che muovono i suoi alter ego romanzeschi, sono l’Ossessione e il Vittimismo, la Frustrazione e la Rivalsa: quattro atteggiamenti che la progressiva proletarizzazione del lavoro culturale ha reso sempre più estesi, radicati e minacciosi lungo il secolo abbondante che ci separa dallo scrittore.

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