Raccontare solo buone notizie. Come smontare le regole sacre del giornalismo

Simonetta Sciandivasci

Il ruolo che le notizie e i media hanno nell’incoraggiare o scoraggiare la democrazia. Uno studio della piattaforma Constructive Journalism

If it bleeds it leads, se sanguina funziona. Se il giornalismo ha ancora delle regole, questa è senza dubbio la più osservata. Nulla fa più notizia del dramma. E’ stato sempre assai complicato capire se di questo fosse responsabile la faciloneria dei giornalisti, il loro voyeurismo, la loro eccessiva compiacenza verso la curiosità morbosa del pubblico per l'orrore o, in ultimo, il fatto che quella curiosità fosse consustanziale all'animo umano. Di certo, mai come adesso il fare informazione trasformatosi in creare informazione è sotto processo. Le presidenziali americane hanno messo sulla bocca di tutti il fallimento del giornalismo e la sua eterogenesi. La vittoria di Trump, improbabile secondo la maggioranza assoluta dei media, ha dato l’esempio di come rimozione e manipolazione delle notizie siano passati dall’essere processi governati da meccanismi di potere politico a meccanismi psicologici.

 

Per questo è molto interessante l’esperimento della piattaforma Constructive Journalism, che riunisce ricercatori e giornalisti (soprattutto freelance) impegnati a elaborare e sperimentare vie per rendere positivo e  propositivo il racconto dei fatti. Qualche settimana fa, sul loro portale, è stato pubblicato lo studio che una di loro, la ricercatrice Jodie Jackson ha condotto di recente nell'ambito del master in Psicologia Positiva presso la University of East London. 

 

Punto di partenza: il ruolo che le notizie e i media – che sono da considerarsi non solo strumenti che ci dicono cosa pensare, ma pure come pensarlo –  hanno nell’incoraggiare o scoraggiare la democrazia è ancora determinante. Obiettivo: desumere gli effetti di brutte e buone notizie sull'opinione del pubblico e, più ancora, sull'igiene del suo umore, sulla sua felicità, sulla sua reattività. Più del risultato, che è abbastanza semplice da immaginare (le buone notizie recano ottimismo, audacia, coesione sociale, fiducia nel futuro, mentre quelle cattive producono isolamento, sconforto e depressione), quello che davvero è interessante di questo lavoro (i cui limiti sono, tuttavia, l'assai ristretto numero di partecipanti agli esperimenti condotti per portarlo a termine e il fatto che gli esiti degli stessi siano stati esaminati su un tempo assai breve: sarebbe stato utile scoprire, per esempio, se la depressione derivante dalle bad news è destinata a venire assorbita o surclassata col passare dei mesi e degli anni) è la definizione di buone notizie, cui il gruppo di studio è pervenuto alla fine. 

 

Se dagli anni Ottanta in poi, buone e cattive notizie sono state rappresentate sempre come storie ai poli opposti dello spettro degli accadimenti, le prime frivole e fondamentalmente irrilevanti, le seconde condizionanti, ineluttabili e massimamente indesiderabili, le riflessioni e gli studi più recenti sull’informazione (dai quali Jackson è partita e di cui dà conto nella prima parte del suo lavoro), sostengono, invece, la fallacia degli antipodi e la possibilità, persino la necessità di una loro convivenza. 

 

Lo studio di Jackson definisce “buona” quella notizia che porta con sé una speranza, la possibilità di una ricostruzione, di un intervento sulla realtà: le storie virtuose ed eroiche vi rientrano a patto che non siano consolatorie, ma che mostrino una possibilità. I lettori non hanno chiesto di poter guardare in faccia l’orrore perché l’amassero, bensì perché le buone notizie sono sempre state somministrate come miraggi lontani, scardinati dall’attualità e, spesso, in modo così zuccheroso da apparire irreale. Le stragi, i maremoti, il terrorismo, le guerre, le apocalissi finanziarie, invece, sono sembrate più credibili, vere. La chiave, allora, sta nel modo in cui si offrono le notizie che, da sole, raccontano ben poco. La coesione sociale e il desiderio delle persone di farsi parte attiva del consesso pubblico possono essere risvegliate da un racconto che nella realtà veda il fatto, il problema e le possibilità di soluzioni. Le tanto in voga denunce e i bollettini di guerra, da soli, non fanno che spegnere le energie individuali e la disponibilità alle sfide, iniettando un terribile siero di refrattarietà al – supposto – declino. 

 

“Mio padre si è suicidato perché i giornali del mattino lo deprimevano. L’orrore, dice Kurtz alla fine di “Cuore ti tenebra”. E beato lui non distribuivano il Times nella giungla”, dice Boris Yellnikov all’inizio di “Basta che funzioni” di Woody Allen. Non servirà opporre la bellezza all’orrore, ma renderli compatibili alla cooperazione.