Leonard Cohen (foto LaPresse)

La delicata arte di Leonard Cohen, poeta in musica senza il rock'n'roll di Dylan

Stefano Pistolini
Con la sua musica raccontava il male oscuro delle esistenze rarefatte, sempre sul filo dell’autoironia, in una specie di flamenco del grande amatore e del provetto lasciatore, quello di cui non fidarsi
Il fatto è che insieme abbiamo edificato un impero. E ora che le sue pietre invecchiate si sgretolano, assistere alla dissoluzione si rivela un’esperienza torturante, un continuo, ribattuto, insopportabile invito a ripercorrere, rivisitare, rivivere tutto ciò che si associa all’ultima perdita e la cosa somiglia a un castigo perverso, inannunciato e ben nascosto nelle pieghe della cultura popolare a cui siamo tutti iscritti. Conviene cominciare a ragionare sugli estremi di questa procedura, per non cedere alla lamentazione isterica, “oh no, pure lui!”, all’invocazione del grande anno della sfiga, al quale è inevitabile, ne seguiranno altri più o meno altrettanto sfigati, se l’unità di misura è il numero di popstar, o semplici cantanti del nostro personale culto, passati a miglior vita nel corso di quei 12 mesi. Da qualche parte la chiamano Storia, e s’è talmente invocata la legittimità che anche il Pop potesse avere la sua Storia con la S maiuscola, che ora gli officianti devono mostrare il buon gusto d’aderire al canone e lasciare da parte i grondanti sentimenti.

 

 

La dipartita di Leonard Cohen era annunciata, per l’età avanzata e le condizioni fisiche non splendide, di cui si sapeva e che aveva ironicamente sottolineato pubblicando, con mirabile tempismo, il 14esimo e ultimo album non più d’una ventina di giorni fa – vuole la leggenda per le incessanti pressioni del figlio Adam – chiamandolo “You Want it Darker”, tu lo vuoi ancora più tetro, arabesco grottesco su quella reputazione d’inguaribile poeta della depressione e della più sofisticata indolenza intellettuale, che lo segue da sempre e che ha contribuito in modo determinante al successo di Cohen.

 

 

Un successo prima di tutto di seduzione più che di ammirazione, di sexiness, per ciò che liberamente traspirava dalle sue canzoni, per il desiderio di essere lui, come lui, nei paraggi di lui, che uomini e donne di tutto l’occidente hanno imparato fedelmente a coltivare. Una sorte consona a un uomo che a lungo aveva provato a essere poeta – per approccio, sensibilità, forse perfino per vocazione – considerando la musica solo una periferia del suo bisogno d’esprimersi e rappresentarsi, che già stava tutto in quella parola pronunciata, in quella voce modulata laggiù in basso, con toni da dicitore, mica da cantante.

 

 

L’ultratrentenne, primo figlio d’una buona famiglia ebrea di Montreal, educato ai princìpi religiosi e devoto alla complessità, alla ricchezza e all’affidabilità di sentirsi un jew, scivola nel mondo della musica, abdicando dolorosamente dai suoi versi e dai suoi primi tentativi letterari (“Da lì in poi sarebbe stato tutto un calando”, rievocava lui stesso col sorriso sulle labbra), sottomettendosi alle proposte del solito John Hammond, il titanico pigmalione della Columbia Records che aveva già un Bob Dylan sulla coscienza e che aveva intravisto nel guardingo canadese dai modi felpati la stoffa d’un enorme curatore di canzoni descrittive del male oscuro, della vita come vagabondaggio tra le elucubrazioni, punteggiate di esperienze rarefatte. Lui le chiamava “investigazioni” anziché songs, e ci metteva dentro, spudoratamente e senza giri di parole, tutto della sua esistenza inquieta, i suoi incubi e i suoi sogni, i suoi incontri e le sue pulsioni, sempre sul filo dell’autoironia, in una specie di flamenco del grande amatore e del provetto lasciatore, quello di cui non fidarsi anche se, chissà perché, tutte le migliori signore restavano stregate. Sarebbe stato un lungo viaggio solitario, accompagnato da perenne, unanime plauso, da un rispetto perfino fastidioso, da un’adorazione che l’ha mantenuto, miracolosamente, sempre nello status di poeta, non facendolo mai piombare nell’incerta condizione della rockstar.

 

 

Sempre in sospensione, quel paragone con l’altro grande poeta musicale ebreo dei nostri tempi, il Dylan che sul filo di lana gli ha soffiato un Nobel in fondo così pleonastico, di cui Leonard ha fatto più felicemente a meno di quanto, ad esempio, sarà capitato al terzo incomodo della grande poppiness di fine Novencento, Philip Roth. Ebbene, si è detto spesso che Dylan è stato il poeta capace di declinarsi musicalmente dentro il rock’n’roll, mentre Cohen, bravo quanto lui, ma con le sue storie d’appartamento anziché di strada, è stato un poeta in musica, ma senza rock’n’roll. Quest’arte di esistere togliendo, in levare, resta la cifra delicata e indimenticabile di Cohen, i cui languori, gli sguardi lunghi, le cantilene amorose, le definizioni fulminanti, continueranno ad accompagnarci nel tempo, senza invecchiare d’un solo giorno. Perché in fondo, è cosa nota, questa è la poesia.

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