Ciao maschio

Antonio Gurrado
La guerra del sesso vista attraverso le presidenziali americane (e un giochino un po’ perverso). Egemonia femminile in atto, l’uomo assediato nella trincea dell’erotismo.

C’è chi si eccita per il ballbusting, pratica erotica che sconsiglio vivamente di provare a casa col vostro partner. Consiste nel far sistemare l’uomo in piedi a gambe divaricate e di spalle alla donna che, di soppiatto, gli si avvicina sferrandogli una repentina e risoluta pedata proprio lì in mezzo, dal basso verso l’alto. Ora, da un sommario esame di diverse testimonianze filmate si evincono alcune costanti del ballbusting. Anzitutto è indifferente che l’uomo sia nudo o in braghette poiché, per espletare tale pratica, più dell’esposizione della pelle conta l’attrito fra la tensione del sapersi prossimo all’impatto e l’estrema vulnerabilità della parte anatomica coinvolta: punto critico cui nessun uomo potrà mai garantire protezione assoluta, nemmeno sapendo che la pedata è in arrivo. La donna è invece vestita sovente in modo provocante, per quanto l’uomo le volti la schiena e quindi possa solo figurarsela. Inoltre si verifica immancabilmente un istante in cui l’uomo, indifeso come un verme, pare quasi sospirare l’amnistia, confidando che magari la donna non sarà così efferata da accontentarlo colpendolo proprio nel modo per cui lui, posizionandosi così, si è volontariamente acconciato.

 

Le più ardite in effetti si esibiscono in finte, tentennamenti, virtuosismi del piede che ritardano il colpo prolungando indefinitamente il piacere dell’attesa di chi dà e di chi riceve, ma sperare è inutile: la pedata arriva sempre, nemmeno la donna più sadica sarebbe tanto crudele da non concederla e lasciare l’uomo lì in attesa in eterno, solitario e fremente. Seguono, è ovvio, contorcimenti, guaiti, spasmi dell’uomo atterrato talmente profondi e sinceri che un osservatore neutrale si domanda se non segnino il confine esatto fra piacere e dolore, anzi, fra dominio e servitù: poiché nel ballbusting non è chiaro chi comandi né chi goda; l’uomo propone ma soffre fisicamente, la donna dispone ma non prova altro piacere che la soddisfazione di potersi dire di averne steso un altro.

 

C’entra la politica, naturalmente, senza la quale ciò andrebbe derubricato fra gli infiniti passatempi possibili. Inizia da qualche settimana a farsi più frequente la variante del ballbusting in cui l’uomo indossa la maschera di Donald Trump, così che l’osservatore neutrale si senta ulteriormente smarrito: chi è la vittima della pedata? Siamo di fronte a un uomo la cui perversione specifica consiste nel venire umiliato mentre è camuffato da qualcuno più potente di sé, e potenzialmente il più potente del mondo? Siamo di fronte a donne che intendono punire la tracotanza del testosterone di Trump e, non potendo farlo di persona, agiscono in effigie colpendo un quidam miserello nell’unica cosa che tutto il suo genere ha in comune col candidato repubblicano? Il pubblico che, guardando il video, dovrebbe eccitarsi o almeno divertirsi è composto di uomini o di donne? Il ballbusting è una pratica erotica o un’azione militante? E’ sesso o politica?

 

Qualsiasi risposta è errata, perché la distinzione non esiste più. Le presidenziali americane sanciranno la fine della campagna elettorale ma, quale che possa esserne il risultato, segneranno il cambiamento irrevocabile del rapporto intimo fra uomo e donna, poiché avranno definitivamente appiattito il dominio di genere nella sfera pubblica su quella privata e viceversa. Basta guardare Trump, che nell’esercizio della propria retorica ama concentrare l’attenzione del mondo su quella medesima vulnerabile parte che lo accomuna a tutto il resto del genere maschile, diventandone una sorta di candidato di bandiera. Basta guardare l’happening del comizio congiunto di Hillary Clinton e Michelle Obama, due first lady la cui principale argomentazione è che nessuno come una first lady conosce i segreti della Casa Bianca e quindi sarebbe in grado di gestire il bottone nucleare; con Michelle che implicitamente minaccia una propria futura candidatura, in vista di un mondo migliore in cui saremo tutti costretti a mangiare broccoli e saltellare, e con Hillary che ha la faccia tosta di lasciar intendere che alla fine vincere non le importa poi tanto quanto difendere, in queste elezioni storiche, la dignità delle donne minacciata da un candidato aduso ad arraffarle dal pelo. Perfino il maggior ostacolo per Hillary, il mailgate, gira e rigira s’inabissa nelle mutande di Anthony Weiner, marito fedifrago dell’aiutante della Clinton, rinomato per l’incapacità di contenersi e per la vocazione a capro espiatorio gravato da una colpa spermatica perenne. E’ dichiaratamente in atto una guerra del sesso, che si irradia dai rapporti di forza a letto e mira a ricalibrare gli equilibri dell’erotismo per mezzo dello scontro politico, a livello governativo, militante, etico e ontologico.

 

Ha fatto rumore il sondaggio elettorale secondo cui, se in America votassero solo i maschi, Trump vincerebbe con discreto margine mentre, se votassero solo le femmine, Hillary lo asfalterebbe. Forse è anche un sondaggio frainteso, se ci si limita a leggerlo come mero riflesso di un dibattito politico spostato dalle idee di governo a cosa significhi essere maschi e femmine: le vanterie da locker room di Trump, l’incapacità di Hillary di impedire i tradimenti del marito e così via. Se lo consideriamo invece entro una prospettiva secolare, probabilmente in futuro gli storici riterranno questo sondaggio scandaloso un trascurabile effetto collaterale del fatto che il terreno su cui si combattono le presidenziali 2016 è la progressiva presa di coscienza della superiorità della donna sull’uomo. Hillary si è proclamata rappresentante dei sogni impossibili delle bambine che volevano diventare presidente; poi, quando ha scoperto che per vincere non le sarebbe bastato essere donna, ha spostato l’attenzione sull’invotabilità di un avversario erotomane, fanfarone, prepotente – in una parola, sul dovere di non votare Trump perché è maschio.

 

Se non l’espressa superiorità, l’asimmetria fra uomini e donne è già nei fatti o, meglio, è già nei preconcetti con cui li interpretiamo. Inutile dire che sui quotidiani un uomo che uccide una donna occupa più spazio dell’inverso, che tuttavia accadendo più di rado dovrebbe fare più notizia. Si sono già spesi fiumi di inchiostro sul paradosso del femminicidio, per cui il caso che io uccida la mia ragazza risulterebbe più grave del caso che lei uccida me. E’ più divertente inseguire questi preconcetti dove si annidano insospettati, ad esempio su un palcoscenico snob: leggo sul Fatto che in uno spettacolo teatrale del Terni Festival una ballerina ha sodomizzato un ballerino con uno strap-on (per i non addentro, una cintura che termina in un fallo sintetico) e il pubblico pare non essersi scandalizzato affatto. Quante sostenitrici di Hillary erano sedute in platea ad applaudire compunte? E, ovvio, se si fosse inscenato l’esatto contrario sarebbe accaduto il finimondo: accettiamo piuttosto supinamente oramai che uno stesso atto abbia valenza diversa se compiuto da una donna su un uomo o viceversa.

 

Tutt’al più si può argomentare che, in questo caso come nel ballbusting, l’uomo si trova in una posizione subalterna perché l’ha deciso lui, quindi paradossalmente sta esercitando sulla donna che ne tortura le pudenda un potere coercitivo finalizzato al proprio stesso piacere. Benissimo, ammettiamolo pure: è giusto un altro tassello aggiunto al preconcetto che ci fa percepire le donne sempre vittime, sempre innocenti, sempre dalla parte del giusto. Altrimenti, tanto per cominciare, non manifesterebbero. Gli scioperi delle donne che recentemente hanno avuto luogo in Polonia e in Argentina sono fondati sul principio che – esattamente come la folla che chiedeva pane ai tempi di Bava Beccaris, o gli operai dei tempi in cui il Primo Maggio non prevedeva concertoni – le donne si proclamino categoria vessata, in difesa della quale bisogna compiere atti di esplicita militanza. In Argentina lo slogan era alquanto falangista: “Se ne toccano una risponderemo tutte”. Ma non dovrebbe essere così per l’intero genere umano? Non dovrebbe ripugnare a tutti noi, in quanto esseri umani, che uno qualsiasi di noi venga ucciso? Le manifestazioni di genere presuppongono invece una sospensione del diritto naturale, quell’idea secentesca oramai tramontata per cui tutti gli uomini costituiscono una comunità sovranazionale, regolata da un’etica razionale condivisa in quanto innata. Chi manifestava in Argentina manifestava anche in favore della divisione del genere umano in due squadre a seconda del genere: “El machismo mata” significa, a un più articolato livello semantico, che da un lato ci sono i cattivi e dall’altro le buone.

 

Lo sciopero delle donne ha una connotazione sessuale dai tempi della “Lisistrata” di Aristofane. Sono passati duemila anni e l’idea che le donne chiudano le gambe per punire gli uomini ha perso di originalità, ormai ce l’aspettiamo; ciò nondimeno è più radicata oggi la consapevolezza che il sesso sia teatro di guerra, che l’erotismo sia strumento di dominio e di ricatto il cui manico è saldo nel palmo di chi se ne proclama vittima. Pensate ai baci indesiderati di Trump: pensate all’improvviso risveglio di donne smemorate che ricordano fugaci sfioramenti di trent’anni addietro, interpretandoli alla luce della recente immagine del candidato repubblicano costruita a seguito del famoso fuori onda in cui si vantava di discutibili conquiste. Ecco. Ora che ci avete pensato, oserete prendervi  il  rischio di un bacio dall’esito incerto sapendo che fra dodici o quindici anni quella donna potrà arbitrariamente decidere di rivangare l’episodio interpretandone unilateralmente intenzioni e contesto, certa di poter contare sul favore di un ambiente pronto a darle ragione a priori in quanto donna?

 

E’ un potere smisurato, che grazie a internet non accenna a trovare limite. Da un lato perché internet è il regno della semplificazione concisa e quindi del facile vittimismo, a botte di hashtag generici e vacui: lo sciopero contro la legge polacca sull’aborto ha traslocato da Varsavia a Bruxelles dove delle manifestanti belghe (sette, a giudicare dalle foto) sono insorte in favore delle consorelle, e lì all’affievolirsi delle concrete ragioni della protesta è corrisposto un incremento degli hashtag sugli striscioni, passando dallo sporadico #czarnyprotest al sistematico #moncorps #mesdroits. In secondo luogo, perché internet mette a disposizione delle donne una forma di comunicazione immediata e capillare  del proprio corpo senza la contropartita della presenza.

 

Basta fare un giro su Facebook per riscontrare innumerevoli esempi di esibizionismo soft (corredati dall’occasionale frase apparentemente profonda benché in italiano stentato), che spingono sempre più in là l’esca della provocazione poiché – a differenza di una normale cocotte ottocentesca – la narcisista che si promette senza darsi non entra mai nella gittata delle grinfie del maschio desideroso, quindi non rischia, ha garantita l’intangibilità. Il dilettantesco selfie al cesso, o in bikini, o reclinata quel tanto che basta a rammentare al mondo la preponderanza delle tette, non è di sostanza diversa dell’ultimo grido del professionismo: il FinDom, ossia quella branca del dominio erotico femminile che consiste nell’esplicita richiesta, da parte di donne con pseudonimo, di versamenti da carta di credito quanto più cospicui e costanti. La novità è che in cambio non si ottiene del sesso né la visione di centimetri di pelle ma la sola lista del superfluo che la donna ha comprato col sudore del tuo lavoro, e il conseguente trasloco della femmina dal ruolo aristofaneo di ricattatrice sessuale a quello post-marxista di padrone e sfruttatore.

 

I soldi sono grimaldello e unità di misura dell’egemonia femminile. Antonella Baccàro, che si occupa di economia sul Corriere, qualche giorno fa ha fatto notare che allo svilimento di Trump in quanto maschio corrisponde il sostegno a Hillary da parte di una lobby di ricche single, ossia – lo traduco in termini più espliciti – di donne che esercitano sull’uomo un totale predominio finanziario (guadagnano di più) ed erotico (ne fanno a meno). Questo è l’orizzonte entro cui bisogna considerare il mito montante del lavoro femminile. Le agiografie delle donne manager, i premi  conferiti da Laura Boldrini a ricercatrici calabresi per il loro essere ricercatrici e calabresi, le iniziative dello stesso Corriere quali la tre giorni “Il tempo delle donne”, i convegni universitari su empowerment & leadership tenuti da professioniste incapaci di reperire sinonimi italiani: tutto contribuisce a fomentare l’asimmetria del nostro preconcetto radicandolo sul circolo vizioso secondo cui, le più meritevoli essendo sempre donne, basti quindi essere donna per sentirsi meritevole, dalla presidenza americana in giù. Cent’anni fa Pirandello aveva già capito tutto con “Suo marito” ma evidentemente, ai tempi nostri, abbiamo bisogno di un sostanzioso ripasso.

 

L’erotismo è la trincea in cui l’uomo è assediato da una superiorità femminile già in atto nella propaganda politica, nella pratica giuridica, nella protesta militante, nella rivendicazione professionale. A voler fare i filosofi, ci si dovrebbe domandare quanto disti il salto al livello ontologico: è possibile, è prevedibile, è magari già all’opera una corrente di suprematismo femminile, tale quale il suprematismo bianco ma molto meno facile da stigmatizzare poiché camuffato da riscatto di una minoranza storicamente vessata? Dobbiamo aspettarci un tempo in cui la donna in quanto tale rivendicherà di essere superiore all’uomo in quanto tale? Interrogarsi al riguardo potrebbe essere un ottimo modo per passare il tempo e ingannare l’attesa. La guerra del sesso è infatti destinata a protrarsi fino all’inevitabile rovesciamento dei tradizionali rapporti di forza: nonostante le finte, i tentennamenti e i virtuosismi, già oggi sappiamo che le donne vinceranno, essendo più inflessibili e meno vulnerabili; l’unico dubbio lasciato alla nostra speranza è sul momento esatto in cui la pedata arriverà.

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