Ruggiero cavalcando l'ippogrifo, salva Angelica dal mostro marino: dipinto dell'artista Jean Auguste Dominique Ingres, 1819, Parigi, Musée du Louvre.

Ariosto, mezzo millennio dopo, è oscuramente fraterno alla nostra èra

Matteo Marchesini
A mezzo millennio dalla prima edizione dell’“Orlando furioso” (1516), ci si potrebbe divertire a cogliere qualche affinità tra il nostro presente e il contesto storico riflesso fantasticamente nel poema.

A mezzo millennio dalla prima edizione dell’“Orlando furioso” (1516), ci si potrebbe divertire a cogliere qualche affinità tra il nostro presente e il contesto storico riflesso fantasticamente nel poema. Mentre il giovane Ludovico imbastisce la sua “gionta” all’“Innamorato” del Boiardo, gli stati italiani perdono l’indipendenza e si riducono a fragili pedine sulla scacchiera delle potenze europee. Finisce la primavera carnascialesca del Quattrocento, tempo di letterature acerbe e interregionali in cui i tratti plebei e raffinati si mescolavano in una rorida poesia d’occasione. Nel 1494, la calata dei francesi rompe dopo quarant’anni gli equilibri della pace di Lodi, piccola guerra fredda che ha garantito una tregua insolitamente lunga alla penisola. La Storia ricomincia a muoversi con i suoi eserciti, dotati degli archibugi che l’eroe del “Furioso” prova invano a seppellire in mare per difendere l’ideale della cavalleria: un ideale ormai remoto, come nel XXI secolo, davanti ai droni, appaiono remote le pesanti divise novecentesche. Di lì a poco le guerre tra stati diventano guerre religiose, combattute anche coi nuovi mezzi della stampa, un’arma di propaganda ideologica formidabile quanto oggi il web.

 

La rivoluzione gutenberghiana agisce sull’intera cultura: diffonde una mole d’informazioni presto incontrollabile, fissa la versione corretta dei testi, standardizza i volgari regionali, e così invita a codificare una lingua letteraria nazionale. Nella seconda e nella terza edizione del poema, Ariosto cercherà appunto di cancellarne la residua patina padana seguendo i precetti di Bembo, che indicava come modelli Petrarca e Boccaccio. Però il pontefice del volgare fiorentino tace sul “Furioso”, forse perché questa colta rielaborazione dei cantari non rientra tra i generi che ha previsto. E del resto nelle “corbellerie” di messer Ludovico ogni citazione stilistica o tematica dai grandi toscani, Dante compreso, perde i connotati originari e diventa subito ariostesca: a una trama funambolicamente eterogenea fa da contrappeso l’uniformità di stile e di passo testimoniata dalle ottave sinuose, panneggiate e insieme rapidissime. Tutto il “Furioso” si regge sul difficile equilibrio raggiunto tra spinte e caratteri opposti: da una parte l’ironia, dall’altra il fondo malinconico; da una parte gli eroi invulnerabili da fumetto che infilano sull’asta mucchi di nemici come tortellini, dall’altra gli eroi troppo umani che soccombono; da una parte le nobili scenografie cavalleresche, dall’altra i paragoni domestici che riconducono i duelli più solenni alla misura di una pesca sul Po o di un interno d’osteria ferrarese. Lo stesso Ariosto è duplice: sedentario e mercuriale, ragionevole e languido, sboccato e classicista. Queste doppiezze riflettono un mondo ovidianamente metamorfico, volubile e senza pace. E’ il mondo in cui le alleanze politico-militari cambiano di continuo e in cui al poeta-funzionario, se porta dagli Este al papa un’ambasciata sgradita, tocca vedere troppo da vicino il Tevere; il mondo della fortuna machiavelliana e della contagiosa follia già registrata da Alberti e poi messa in scena, oltre che dal “Furioso”, da Erasmo, Shakespeare e Cervantes.

 

Con una suspense da videogioco o da serie tv, e con le interminabili catene di novelle che dilatano la pancia del suo poema senza inizio né fine, Ariosto ci ripete che la vita è un ininterrotto inseguimento d’ombre e di chimere. Insieme ossessivi e distratti, gli uomini corrono dietro prima a una donna e poi a un elmo, a un cavallo o a un anello, con la stessa stordita testardaggine. E dato che la realtà è imprevedibile e indomabile, nessuno raggiunge l’oggetto dei suoi desideri: “Angelica che fugge”, che di questo eterno desiderare è l’emblema più esplicito, viene conquistata solo da chi mai s’è sognato di cercarla, da un povero fante privo di qualunque curriculum epico.

 

Il cosmo ariostesco somiglia tutto al castello di Atlante, la fortezza fatta d’illusione in cui il mago trattiene il suo pupillo Ruggiero per impedirgli di andare incontro a un precoce destino di morte. Il castello è un rifugio ma anche una sineddoche del mondo; è un luogo protetto, ma anche un inganno. Stare lì dentro, procrastinare la sorte, significa vivere nell’irrealtà, cioè non vivere; mentre uscire, cioè vivere, significa morire. In ogni caso, dentro e fuori, agli uomini manca la terra sotto i piedi. Perciò la fantasia di Ariosto non è mai solo umoristica e ludica, ma è sempre avvolta in un’ombra ambigua, misteriosa, sfuggente, sempre abitata dalla coscienza che i progetti umani mancano il loro approdo.

 

In questo senso, più di Croce che gli ha appiccicato addosso l’etichetta critica dell’“armonia”, e più di Calvino che l’ha affrontato come una partita di scacchi, sembra averlo capito bene Fortini, che non lo amava e che parlava con disagio di un “taoismo alla ferrarese”: dire che niente ha scopo, che tutto è scherzo, non è affatto uno scherzo ma una constatazione nichilista. E’ la ragione per cui la nostra epoca virtuale, così distante dai suoi tarocchi, lo sente a volte oscuramente fraterno. Tornando al gioco dei paragoni, proporrei di guardarci intorno e di chiederci se per caso oggi non si aggiri tra noi un Ariosto, o almeno qualcuno che ricopre le sue funzioni nell’immaginario del Duemila. Ho il sospetto che sia Quentin Tarantino.