Il personaggio del sacerdote Zaccaria nel "Nabucco"

Così si canta la presenza di Dio nella Storia

Antonio Gurrado
E’ successo che, in Zaccaria che lo scuote, il popolo ha rivisto il fulmine. “Oh qual foco nel veglio balena!”, esclamano tutti all’unisono, nel riconoscersi folgorati dalla presenza del Signore testimoniata dal gran sacerdote.  Il "Nabucco" è tutta un divino temporale.

Dal 9 luglio sino al 9 agosto, nell’ambito della stagione estiva del Teatro dell’Opera di Roma alla Terme di Caracalla, va in scena “Nabucco”, opera di Giuseppe Vedi su libretto di Temistocle Solera. La regia è curata da Federico Grazzini, le scene da Andrea Belli, i costumi da Valeria Bettella. Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma saranno diretti da John Fiore. Tra gli interpreti principali Luca Salsi nel ruolo di Nabucco,  Antonio Corianò nel ruolo di Ismaele, Vitalij Kowaljow in quello di Zaccaria, Csilla Boross è Abigaille, Alisa Kolosova Fenena.


 

Se volete essere liberi, non cantate il Va’ Pensiero. Sembra una provocazione ma non è un’idea particolarmente innovativa, essendo stata espressa per la prima volta nel 1842 e per giunta sul palco stesso in cui andava in scena il primo “Nabucco”. Non appena cessa il coro degli ebrei esuli in Babilonia, si avanza il gran sacerdote Zaccaria che li rimbrotta; mantenendo la metrica ma cambiando melodia, rinfaccia loro di star piangendo come femmine imbelli, di star sollevando all’Eterno lamenti che coprono la voce divina delle profezie. Non sulla loro aria lagnosa, proclama Zaccaria, bensì “sul mio labbro favella il Signor”. Con un collettivo mutamento di vedute, repentino come solo nella lirica può essere, il popolo d’Israele cessa la romantica nostalgia della patria sì bella e perduta, e decide di rompere “l’indegna catena” che lo lega in terra straniera: per la profezia del sacerdote, non per il coro nella cui doglianza si crogiolava Israele.

 

E’ successo che, in Zaccaria che lo scuote, il popolo ha rivisto il fulmine. “Oh qual foco nel veglio balena!”, esclamano tutti all’unisono, nel riconoscersi folgorati dalla presenza del Signore testimoniata dal gran sacerdote. Di fulmini ce n’è a bizzeffe, lungo il libretto; quest’opera è tutta un divino temporale. Si comincia quando Nabucodonosor entra a profanare il tempio di Salomone in Gerusalemme, e allora “di barbare schiere l’atroce ululato nel santo delùbro del Nume tuonò”, mentre il sovrano stesso “fulminando irrompe nella folta”; ma questo rumore umano è solo una pallida imitazione del rimbombo superno, del “gran Nume che vola sull’ale dei venti, che il folgor sprigiona dai nembi frementi”. Si finisce con il coro che, nell’ultima scena, prende piena coscienza della presenza nelle cose umane del Dio che “sul labbro de’ veggenti fulmina”, fino a chiedersi atterrito: “Immenso Jehova, chi non ti sente? Chi non è polvere innanzi a te? Tu spandi un’iride? Tutto è ridente; tu vibri il fulmine? L’uom più non è”.

 

Nel Nabucco la presenza di Dio è lampante, e ogni boato o baleno serve a rispondere alle irridenti domande del sovrano sul silenzio divino: “Il vincitor son io; ma giunse il vostro Dio? Il Dio d’Israello si cela per tema?”. Sovrasta tutto la celeberrima scena posta a metà opera, quando secondo l’esplicita didascalia “rumoreggia il tuono, un fulmine scoppia sulla corona del re”, che viene strappata a Nabucodonosor “da una forza soprannaturale”. Il coro commenta con aplomb: “Oh come il cielo vindice l’audace fulminò”. Non pare sorpreso; a fronte del pazzo orgoglio antisemita di Abigaille (“Questo popol maledetto sarà tolto dalla terra”) fomentata dal gran sacerdote di Baal (“Morte agli ebrei! Di Giuda gli empi figli perano tutti”), si capisce subito che Nabucodonosor non è mosso disprezzo contro gli Israeliti ma da una sete di sostituirsi a Dio. Perciò rinfaccia agli ebrei che il Signore “cadde combattendo contro me”, non esita a infrangere il proprio stesso idolo babilonese, pretende che la figlia si prostri “al simulacro mio”; infine esulta vittorioso: “Non son più re, son Dio!”. Fulminato un attimo dopo.

 

Nell’Ottocento far lampeggiare sul palco poteva essere complicato, ma ancor più lo è tradurre in azione teatrale i versetti del profeta Geremia che Temistocle Solera decise di collocare in esergo a ciascuna delle quattro parti. Perché farlo? Un esergo non si canta né s’inscena, e può beneficiarne solo chi ha il libretto sott’occhio. Può darsi che Solera mirasse all’esercizio di stile, rinvenendo esempi della folgorazione nella promessa che “il re di Babilionia arderà questa città col fuoco” ma “il turbo del Signore cadrà sul capo dell’empio”; esegesi mirabile ma limitata. Forse voleva che ai lettori la trama risultasse il naturale sviluppo delle profezie che si abbattono sulla terra numerose e abbaglianti, tanto che l’uomo ne resta disorientato e dimentico che, allo stesso modo, l’azione umana in politica dev’essere naturale sviluppo della presenza di Dio. Altrimenti è solo lamento, nostalgia di una terra idealizzata fino a che un prete non arriva a ricordare al popolo che “la tua patria è il ciel”.

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