Fabrizio Corona durante l'intervista al Maurizio Costanzo Show

Con buona pace dei professionisti dell'indignazione, Fabrizio Corona a suo modo è "un classico"

Andrea Minuz

Analisi ragionata del ritorno in televisione di Corona, tra reminiscenze di Carmelo Bene, berlusconismo rivendicato e ripudiato, e polemiche troppo pretestuose e scontate.

Fabrizio Corona è tornato in televisione, ha smesso di sentirsi Al Pacino in “Scarface”, rispetta le regole, promette un riscatto nell’editoria e cita Nietzsche con disinvoltura. Mentre Alda D’Eusanio pensava di impressionarlo con Bauman, “ma Fabrizio in una società liquida come la nostra tu non pensi che…”, lui rilanciava con lo spirito dionisiaco: “Ci vuole il caos dentro di sé per partorire una stella danzante”. Tiè. E' pura, magnifica televisione, quella andata in onda su Rete 4 per il ritorno del “Maurizio Costanzo Show”. Il più bell’“Uno contro tutti” dai tempi di Carmelo Bene. Chissà, forse Corona si era preparato guardando la puntata del ‘95 su You Tube, con tutti quei Nietzsche, Lacan, Derrida sciorinati a valanga sui giornalisti seduti in prima fila e Carmelo Bene che parlava delle aporie del significante e il pubblico che fischiava. All’epoca, Corona era stato appena bocciato all’esame di maturità. Tre anni dopo avrebbe incontrato Lele Mora. Se la megalomania che ha esibito l’altra sera dice qualcosa sul crepuscolo del berlusconismo, come hanno scritto in molti e come dice lui stesso, allora anche quella di Carmelo Bene diceva qualcosa sul tramonto della Prima repubblica. Fabrizio Corona non ci condurrà tra le vette dell’arte, né in quelle dei significanti. Ma è l’unico vero divo che abbiamo in un cinema senza star system com’è il nostro. Un divo che ha incarnato molte cose che ci fanno palpitare: soldi facili, macchine potenti, belle donne e contraddizioni della magistratura. Ma andiamo con ordine.

 

Da Costanzo andava in scena lo spettacolo dell’ansia per il modello negativo offerto da Corona. Testimonial principali della mozione “dare modelli positivi ai giovani”, Antonella Boralevi e Cecchi Paone. Entrambi agguerritissimi. La prima si arrabbiava in continuazione. Per esempio, con l’ammissione della sua tossicodipendenza e il rigetto della droga Corona fa quello che può, ma poi ammette anche che alla fine “l’importante è tirarsene fuori il prima possibile”. La madrina di Spoleto e Consigliere diplomatico per la comunicazione della cultura italiana va su tutte le furie: “No! Non bisogna iniziare per nessun motivo!” Sbuffa pure Costanzo, “Eh vabbè’”. Per smascherare il marcio, Cecchi Paone insiste sulla laurea. Evoca la Bocconi, incita il pubblico a “frequentare persone che migliorano la propria cultura". “In Italia il talento non conta", replica con calma Corona. "Sono pochissime le persone che ce la fanno con il talento, figuriamoci il titolo di studio”. Il dibattito è bello. Peccato finisca prima di accendersi. Avvolto in un buco dell’audio Cecchi Paone abbandona lo studio a metà trasmissione. Ci lascia con il mistero sulla frase incriminata detta da Corona che nel frattempo innesca varie teorie sui social, “lo avrà sicuramente offeso per la scarsa qualità della sua divulgazione scientifica”, scrivono su Twitter. Vabbè.

 

 

Di mistero ci sarebbe anche quello dell’archivio Corona, annunciato da giorni come pezzo forte della trasmissione. Ma ci annoia quasi subito. L’avvocato Taormina suggerisce di bruciarlo. Siamo tutti d’accordo. Ci intriga e ci fa paura invece il criminale redento che mostra il valore rieducativo della pena. Una specie di Alex  di “Arancia meccanica” dopo una “cura Ludovico” ambientata a Corso Como. E' il Corona che potrebbe piacere a Davigo. Quello che il gossip è morto, la coca fa male, il carcere mi è servito. Per fortuna c’è anche l’icona pop anarcoide e libertaria, pardon la “stella danzante”. Quello che urlava ai giudici e scappava in Portogallo. Quella che non molla la sua personale battaglia contro la magistratura, anche se abbassa parecchio i toni, dimostrando di sapersi ricollocare dallo scontro frontale del berlusconismo all’era Matteo Renzi. Corona sa trovare una complicità con il pubblico catalizzando l’ansia degli italiani per il funzionamento della giustizia, incluse le trame oscure à la Morosini: “Se io dico quello che penso, ritorno in galera tra un mese”, dice mentre cerca con gli occhi l’avvocato Taormina. Strappa molti applausi. Una signora gli dedica “Rose rosse”. Costanzo intuisce che non ci si può girare attorno all’infinito. Arrivati al capitolo carcere apre la pagina più delicata con la domanda che tutti aspettiamo: “Ma i carcerati che ti dicevano di Belen?” Stacchetto dell’orchestra. Altro che “quality Tv”. Sono questi i talk che ci piacciono. Nell’epoca delle serie, dei talent e dei reality, Costanzo ci ricorda che il problema non sono i talk, ma come li scrivi. Giunto ormai alle vette estreme della saggezza, adagiatosi in una specie di nirvana televisivo, a metà tra il colonnello Kurtz di “Apocalypse Now” e Aldo Fabrizi, Maurizio Costanzo molla anche gli ormeggi della lingua e metà trasmissione la conduce in un romanesco da crooner: “Ahò questa sembra ‘na regazzina ma è ‘na criminologa, stai in campana”, dice durante le domande di Flaminia Bolzan, la risposta Mediaset alla Bruzzone di Vespa che ricorda pure un po’ una giovanissima Maria De Filippi.

 

“Siamo qui perché io sono un classico”, diceva quella volta lì Carmelo Bene. Con buona pace dei professionisti dell’indignazione, lo è anche Corona. Lo è con la sua pretesa di incarnare un’epoca e i suoi conflitti. Lo è con la sua pretesa di sentirsi unica stella danzante del berlusconismo che fu. Almeno finché Costanzo non trova la formula perfetta per zittire le polemiche in studio: “E dai su, tutto il mondo è Corona”.

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