Il re dei cazzoni

Annalena Benini

Fabrizio Corona era rimasto l’unico, fra quelli che gli stavano intorno, a guardarsi allo specchio e a sentirsi dentro un film con Al Pacino. L’unico a credere in un codice d’onore pataccaro che l’avrebbe liberato e riabilitato davanti al mondo (il mondo tra Milano e le Maldive), riconoscendo la grandezza di un uomo che diceva di sé, fin dalla prima condanna: “Se oggi non vai dietro le sbarre non sei nessuno”. Il terrore di non essere nessuno l’ha accompagnato sempre, anche nell’ultima fuga, con l’auto sepolta dalla neve, la felpa della palestra e la fine della libertà davanti a una metropolitana, senza avere raggiunto lo scopo: non è mai diventato qualcuno.

    Fabrizio Corona era rimasto l’unico, fra quelli che gli stavano intorno, a guardarsi allo specchio e a sentirsi dentro un film con Al Pacino. L’unico a credere in un codice d’onore pataccaro che l’avrebbe liberato e riabilitato davanti al mondo (il mondo tra Milano e le Maldive), riconoscendo la grandezza di un uomo che diceva di sé, fin dalla prima condanna: “Se oggi non vai dietro le sbarre non sei nessuno”. Il terrore di non essere nessuno l’ha accompagnato sempre, anche nell’ultima fuga, con l’auto sepolta dalla neve, la felpa della palestra e la fine della libertà davanti a una metropolitana, senza avere raggiunto lo scopo: non è mai diventato qualcuno. “Querelerò tutti quelli che dicono che ho pianto” e “basta domande, le interviste si pagano”: dal carcere di Lisbona Corona ha usato una delle telefonate concesse per chiamare “Studio Aperto”. Per dire che lui non piange mai e che continuerà la sua battaglia. Barba di cinque giorni, sigaretta in bocca perché le mani sono legate, ha dormito per terra in cella a Lisbona, con finestra aperta, dopo che per sette ore gli hanno spiegato che non c’era possibilità di restare in Portogallo, nemmeno con la protezione dell’amico sbarbino, aria non sveglissima, figlio di industriali portoghesi. Come stai Fabrizio? Una merda. Sarebbe una piccola storia di megalomania con il gel nei capelli e la ceretta ovunque, da farsi una risata oppure schifarsi di questo pezzo di mondo supercafone, se non ci fossero sette veri anni di prigione. Che non sono foto scattate di due che limonano, non sono la fenomenologia senza pietà di uno che crede davvero di essere un bello e dannato, una specie di James Dean, un Marlon Brando giovane, forse per la grande trasgressione di andare in moto senza casco e insaponarsi il pisello in un documentario: sono sbarre, un giorno dopo l’altro. Sono migliaia di notti dentro una prigione, senza poter fare altro che restare lì (dice che l’altra volta gli urlavano dalle celle: “Corona, vieni a farmi un autografo sul pisello!”, “Corona, voglio scoparmi tua moglie, poi vieni tu e fai le fotografie!”, “Corona domani ti rompo il culo!”). E trasformarsi, anno dopo anno, in un essere danneggiato, in un uomo sbagliato. Il problema più serio di Fabrizio Corona è stato non saper diventare un uomo: è rimasto un quindicenne arrabbiato, bocciato al liceo scientifico, che prende a calci la porta della camera e si disegna le sopracciglia, uno che credeva di scoprire il mondo e invece finiva sempre in un vortice di piccolezze e di cattivi consigli, di medicine sbagliate e di idee balzane, sempre con una ingenuità di fondo, convinto che Mangiafuoco, dopo averlo usato come burattino da circo, alla fine non ne avrebbe fatto legna da ardere. Peggio dei suoi errori e del suo bullismo di plastica ci sono le ironie di chi commenta la condanna, la latitanza, le lacrime, la galera, la mancata grandezza di una vera criminalità, che Corona non possiede, e lo prendono in giro anche per questo, per non essere un vero cattivo, per non avere ammazzato nessuno, lo prendono in giro come se non ci fosse una vita vera dentro, ma un film comico, o un cinepanettone da recensire con disprezzo. Peggio di qualunque frase, pettinatura, tatuaggio, esempio negativo, simbologia e metafora della cattiva strada e della coglioneria suprema di Fabrizio Corona, ci sono questi sette anni di prigione a un uomo fragile, ossessionato dai suoi capelli: ha sempre paura che si gonfino, che diventino ricci, in prigione ci diventa matto. “Rischio la morte se finisco in carcere”. La madre, povera signora affranta, qualche mese fa ha detto che il figlio soffre di una depressione monopolare, e che il carcere nel 2007 (ottanta giorni per associazione a delinquere finalizzata all’estorsione, sempre storie di foto da rotocalco) l’ha devastato, “è uscito di senno”. Cosa gli succederà nei prossimi sette anni? Fa ancora ridere? Siamo rimasti al libro Cuore e all’archetipo di Franti?

    La tentazione di ridere è però umana, quando ci si ritrova in mano il libretto, pieno di fotografie, intitolato: “La mia prigione” (Cairo Editore, testi raccolti da Alberto Dandola e Gabriele Parpiglia: Gabriele Parpiglia, giornalista e suo amico, ha detto nei giorni scorsi, quando Corona non si trovava, una cosa abbastanza saggia: “Corona è un pirla come me. Ora con la paura di perdere il suo personaggio, è fuori di testa. Non è in grado di reggere una fuga. Sta facendo i conti con la paura, non è una persona strutturata per reggere una cosa del genere. E la legge è stata dura con Fabrizio, è stata usata in una misura più morale che giuridica”), e la tentazione di ridere viene a leggere il grande sogno di Corona nel 2007: che tutto il mondo maschile indossi mutande con elastico firmate: I Corona’s. Come quelle di Calvin Klein, più o meno. Lui dice che averle inventate è un altro dei suoi “colpi di genio”, e il suo desiderio più segreto sarebbe quello di vederle indossate anche da Henry John Woodcock, il giudice che l’ha processato, vedergliele spuntare dai pantaloni: visto che adesso che tutti lo fotografano, Woodcock si veste con più cura, secondo Corona si sforza di essere figo. Corona lo chiama Henry Love, perché sostiene che da giovane Woodcock volesse lanciare una linea di intimo chiamata proprio Henry Love (“nella mia completa follia dettata dalla solitudine e dalla sofferenza del carcere ho anche pensato che durante quest’inchiesta Henry Love si sia incattivito nei miei confronti proprio quando ho lanciato la linea di intimo I Corona’s – deve essere quel paio di mutande che ha lanciato dal balcone di casa sua una volta a Milano”). E’ il diario dei suoi ottanta giorni di carcere, dell’orgoglio di essere accettato dai delinquenti veri (“non mi considerano un vip sfigato, ma uno di loro”), dell’ora d’aria passata appoggiata a un muretto con un foglio di carta stagnola sotto il mento, per abbronzarsi, in mancanza di lampade solari (“Corona! Crede di essere a Milano Marittima? Si rimetta subito la maglietta!”), e fare una bella impressione a chi va a trovar lo: gli avvocati, la mamma, i fratelli, Nina Moric (che all’epoca era ancora sua moglie, ma diceva a Chi: basta, lo lascio, poi andava a trovarlo e gli rinfacciava certe tizie con cui era stato visto in discoteca, poi gli si sedeva sulle ginocchia, poi piangeva e gli mostrava le All Star bianche nuove, e lui la guardava bene per vedere se era ingrassata o se era ancora bellissima, se sembrava ancora una bambina un po’ matta). E’ il diario di un megalomane infantile e vanitoso, come lui stesso si è definito, come gli avrà detto lo psichiatra. Uno con la testa piena di complotti, come disse Belén Rodriguez dopo averlo lasciato per un ballerino di “Amici”. Solo sua madre non l’ha lasciato.

    Corona non si accontentava di regalare magliette ai detenuti con la scritta I Corona’s, profumi di Bulgari, autografi, non si accontentava della soddisfazione di dire che tutte le ragazze appese ai muri delle celle lui le conosceva bene, di persona, erano amiche sue, voleva fare uno scoop dentro il carcere, con questa sua fissazione delle fotografie (meglio se di se stesso semi nudo e depilato: in prigione ha passato ore a farsi la ceretta prima di ogni visita, a mettersi creme in faccia, a fare le flessioni e i pesi con bottiglie d’acqua per non perdere i bicipiti), perché aveva paura di scomparire, di non essere più nessuno, e la foto invece dimostra che si esiste. Voleva fotografarsi in galera, e magari vendere il servizio a Chi (“fotografarmi dentro il carcere di Potenza era un ottimo scoop. Significava che ero ancora vivo. Ancora il Numero Uno”). Chiese al suo avvocato, il cui più grande sogno nella vita era diventare un tronista (chissà se è stato un buon avvocato), di procurargli una macchina fotografica, che in qualche modo illegale gli arrivò in cella. Si fece quattro foto sotto la doccia in mutande, poi alcuni scatti dentro la cella, fotografò i suoi diari e le mura. “Impazzisco. Mi viene in mente di portare la macchina fotografica fuori, al passeggio, durante l’ora d’aria. Indosso una maglia I Corona’s bianca e comincio a scattare con i detenuti che mi sono più amici”. Tutti vogliono farsi fotografare, gli chiedono soldi per non parlare, soldi per fare uscire le foto, soldi per fotografarlo dietro le sbarre, da cella a cella. Finisce in isolamento. Non c’è senso della realtà in un’azione del genere, Fabrizio Corona credeva di vivere in una copertina di Novella 2000, pensava (anzi pensa ancora) che tutto il mondo giri lì intorno e esista solo lì dentro, come quando, venticinquenne, si innamorò follemente, riamato, di Nina Moric, e cominciò a vendere di nascosto i loro baci fuori dal ristorante ai giornali. Le foto del loro viaggio di nozze (infine, anche le foto in tribunale della separazione, con una microcamera nascosta dentro gli occhiali da sole). Lei non ne sapeva nulla, lo amava e lui diventò il suo agente (“con Nina, nel tempo, abbiamo comprato quattro fedi e ce le siamo tirate tutte addosso”). Lui la amava e la considerava il massimo, anche per il suo desiderio di esistenza: in un libro-intervista scritto dalla giornalista Valeria Braghieri prima del primo carcere, Corona non si capacitava della sua fortuna: “Fino a quel momento la gente mi vede come un localaro che esce con le modelline e fa casino. Un lacchè di Lele Mora.

    Adesso sono il fidanzato e il manager di Nina, la donna più bella di Milano (quando era bella, Nina Moric era uno schianto assoluto, nessuno si era ancora accanito brutalmente sulla sua faccia: seguendo le regole estetico-morali della condanna di Corona, anche il chirurgo di Nina Moric dovrebbe farsi qualche anno di isolamento, ndr) che potrebbe avere qualsiasi uomo e invece si mette con me: suo coetaneo, io avevo venticinque anni, Nina ventitré, senza soldi (sul mio conto c’erano solo quindici milioni di lire)”. Si fece il primo tatuaggio per amore ed esaltazione, un cuore con scritto: Nina, il primo di tantissimi, compreso il corpo di Belén, il numero della cella nel carcere di Potenza, il santo protettore dei detenuti, la parola “paura”, la parola “free” sulle nocche delle mani, la faccia di suo figlio, che si chiama Carlos Leon come il protagonista di un film di banditi sudamericani. Volere essere un bandito senza esserlo, covare e mostrare un indefinito senso di ribellione verso niente e verso tutto, sentirsi un grande trasgressore ed essere un borghese piccolo piccolo, senza alcun distacco dal mondo delle tette, delle labbra e dei baci più finti che veri. Eminem di San Babila, cresciuto nel calore di una famiglia benestante. Un altro tic sull’interpretazione e deprecazione di Fabrizio Corona: come è possibile che con un padre raffinato, serio, composto come il giornalista Vittorio Corona, morto a cinquantotto anni con nel cuore la notizia del figlio scapestrato indagato per Vallettopoli, sia cresciuto un figlio così disastroso e tamarro? Come se la coglioneria fosse solo ereditaria. E fu comunque il padre, inventore dei fotomontaggi di politici su La Voce, a presentargli il fotoeditor di Chi che gli fece conoscere Lele Mora, l’agente (allora) di Simona Ventura, Elenoire Casalegno, Alberto Castagna, Natalia Estrada (era una specie di Olimpo degli Dei), fu lui a cercare di farlo interessare a qualcosa, ad aiutarlo come farebbe qualsiasi padre, proponendogli il mondo vipparolo che lui stesso conosceva. Ma Fabrizio Corona non aveva il distacco, è caduto dentro quel mondo volendo diventarne il re. Il re dei coglioni è stato il suo risultato. Lo spaccone che, una volta che voleva fare a pugni, è stato preso a pugni da Bobo Vieri, il calciatore, senza molto sforzo, e quando ha guidato una Bentley era la Bentley che gli aveva regalato l’innamorato Lele Mora. “So che quando uscirò da qui, nel giro di un paio d’anni, diventerò veramente qualcuno. Un qualcuno che tutti rispetteranno e ameranno”, scriveva a San Vittore, ossessionato dal non essere nessuno. Una volta un detenuto, un duro, gli ha detto: “Fabrizio, tu hai il cuore freddo come me, anzi sei senza cuore. Potresti fare davvero il delinquente”, e Fabrizio era felice di quel complimento, e a messa in carcere sentiva le preghiere, si commuoveva e subito pensava di farle stampare sulle magliette I Corona’s e guadagnarci molti soldi. Una piccola storia ignobile, che tocca raccontare, se non ci fossero quegli anni di verissima prigione per le foto di David Trezeguet, calciatore, che entra ed esce dall’appartamento di una tizia. Trezeguet è stato risarcito da Corona, con il doppio dei soldi spesi per comprare quelle foto, e non si è mai costituito parte civile, non gliene è mai importato nulla. La pena che cresce a ogni appello, niente sconti, solo aggravanti per Fabrizio Corona. L’ergastolo basterebbe per lavare la vergogna e il fastidio morale, estetico per uno così sfacciato, così sbagliato, uno che dice: “Ho due coglioni così, mio figlio deve essere fiero”? Povero Corona, anche se lui forse, nella sua psicosi, preferirebbe un anno di prigione in più piuttosto che essere chiamato “poveretto”. Quando l’hanno infilato in una macchina, ieri mattina a Lisbona, per portarlo in aeroporto ed estradarlo a Malpensa, mentre gridava le sue ragioni e le sue accuse e tutti i servizi finiti nei cassetti dei rotocalchi, da sempre, un signore grasso con i capelli bianchi gli ha parlato all’orecchio, abbracciandolo, e gli ha dato un bacio sulla testa, da padre.

    E’ stata l’unica immagine dignitosa, in questi giorni in cui il caso Corona ha prodotto, senza sforzo, la mostrificazione di chi guarda. Come quando ci si ritrova a una cena, dove si parla male di qualcuno, e non si resiste e si aggiunge un dettaglio, un aneddoto, pensando che sia divertente. Risatine, rivelazioni, finto stupore, com’è divertente fare a pezzi le vite degli altri. Poi si torna a casa e ci si sente un po’ peggio. Sarà qualcosa che ho mangiato? Sarà il freddo? Forse il freddo, però dentro. Corona, oltre a tutti i suoi disperanti difetti, ha anche quello di peggiorarci l’anima, di farci dimenticare che non si può piangere per la condizione delle carceri italiane e ridere per la carcerazione di Corona e per la sua fuga sgangherata a sessanta all’ora. Lui in prigione per un sacco di tempo e noi finalmente chic, sobri, mai cazzoni, sempre il casco, niente corna, niente esempi cafoni per i nostri bambini, buoni libri (Fabrizio Corona scrive che in carcere ha letto il suo primo libro, “Gomorra”, di Roberto Saviano), e film senza fughe da Alcatraz.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.