Checco Zalone

Checco Zalone vs Rawls

Pietro Monsurrò

Si capisce meglio la politica guardando il film del comico pugliese che non leggendo il filosofo americano. L’analisi “liberale” del primo è meno idealistica. Il film “Quo vado?” si presta a considerazioni politiche profonde, data la sua descrizione delle conseguenze di lungo termine del clientelismo e dell’assistenzialismo sulla cultura e la morale del paese.

Il film “Quo vado?” di Checco Zalone si presta a considerazioni politiche profonde, data la sua descrizione delle conseguenze di lungo termine del clientelismo e dell’assistenzialismo sulla cultura e la morale del paese. Per questo motivo non è del tutto assurdo usare Zalone come campione di un modo di intendere il pensiero politico, il realismo, che contrapporremo all’idealismo, il cui campione (stavolta sul serio) può essere considerato invece John Rawls. Entrambi i termini, realismo e idealismo, significano troppe cose per poter essere usati senza previa definizione. Quando ci si interroga su come funziona effettivamente il mondo, si inquadra la teoria politica in termini di realismo: la finalità del realismo è descrittiva, positiva, scientifica. Quando ci si interroga su come dovrebbe funzionare il mondo, è invece idealismo (nel senso di “ideali”), e la finalità diventa prescrittiva, normativa, morale. La tesi centrale di questa lezione è provocatoria: si capisce meglio come funziona la politica guardando “Quo Vado?” che leggendo Rawls. Rawls è un idealista, quindi non è un suo limite se fornisce pochi strumenti per comprendere la realtà politica: giudicare Rawls in termini di realismo è come giudicare Picasso dalla qualità delle sue prospettive tridimensionali.

 

La distinzione tra realismo e idealismo si ritrova sotto altri nomi in tutti gli ambiti del pensiero politico: prendete un libro di filosofia anglofono e troverete l’“Is/ought problem”; prendetene un altro tedesco e troverete la distinzione tra “Sein” e “Sollen”. Gli economisti parlano poi di “economia positiva” ed “economia normativa”; e alcuni filosofi di “giudizi di fatto” e “giudizi di valore”. Prima di studiare la politica attraverso “Quo Vado?”, cerchiamo di capire come si è arrivati al punto che il film di un comico possa rivelarsi più informativo sui processi politici di un libro di filosofia politica.

 

 

La selezione avversa della filosofia

 

La filosofia si fa nascere con Talete. Con la filosofia l’uomo comincia a porsi quesiti astratti e a cercare di rispondervi in maniera razionale. Talete è stato il primo uomo a dare il nome a un teorema matematico, il primo a prevedere un’eclisse, eccetera. Pensiamo alle opere di Aristotele: politica, logica, fisica, etica, teatro, metafisica. Originariamente tutto era filosofia.
Nel corso dei secoli la filosofia ha gradualmente perso pezzi. Ciò che poteva essere investigato logicamente è diventato matematica. Ciò che poteva essere empiricamente validato è diventato scienza. Cosa è rimasto di filosofia? Il rischio è che rimanesse soltanto la fuffa: ciò che non ammetteva soluzione logica o empirica. Ma esistono problemi che hanno due proprietà che li rendono squisitamente filosofici: problemi importanti che però non ammettono soluzione empirica o logica.
Un problema è squisitamente filosofico quando leggendo oggi ciò che diceva un greco antico su di esso impariamo qualcosa di significativo. Come per la letteratura, ciò che insegna sulla natura umana una tragedia o un poema epico valeva due millenni fa come varrà tra due millenni. Dei problemi squisitamente filosofici si discuterà senza trovare una soluzione anche tra duemilacinquecento anni, quando invece tutte le nostre conoscenze tecnologiche, scientifiche e matematiche saranno superate come lo sono oggi quelle dei greci.

 

L’idea che non esistano problemi importanti senza soluzione è un residuato del positivismo ottocentesco. In realtà lo status epistemologico delle conoscenze umane non ha fondamento logico o empirico, e l’epistemologia è e rimarrà sempre filosofica: si pensi al problema dell’induzione, da Hume a Popper, e del tacchino induttivista di Russell sacrificato per il pranzo di Natale.
Il secondo problema al contempo importante e irrisolvibile è quello della fondazione dell’etica, incluso il problema della giustizia di cui si occupa Rawls. Provate a fare a meno dell’etica, e non saprete come rendere possibile la società tramite regole di comportamento condivise. Provate a fondare un’etica, e vi scontrerete con il noto problema logico dell’inderivabilità dei valori dai fatti.

 

La conoscenza e la società umane si basano su idee prive di fondamento, senza le quali non sarebbero possibili: siamo palafitticoli epistemologici e palafitticoli etici, parafrasando Karl Popper. Ma un’ampia palafitta dotata di attico è preferibile a una palafitta minuscola a pochi centimetri dall’umidità dell’acqua: scettici sì, ma non nichilisti.

 

Nella storia del pensiero politico la separazione stagna tra realismo e idealismo è recente: è impossibile leggere Adam Smith senza scoprire qualcosa su come funziona effettivamente il mondo. Una teoria politica meramente normativa è purtroppo la naturale conseguenza della specializzazione delle conoscenze umane, ma ciò limita l’utilità del pensiero politico. Interrogarsi sulla giustizia senza interrogarsi su come funzioni effettivamente il mondo crea uno iato tra ideali e realtà.

 

 

La filosofia politica di “Quo Vado?”

 

Il contenuto “politico” di “Quo Vado?” è ben riassunto dal testo di “La Prima Repubblica”, che del film è la sigla conclusiva. Il testo descrive una società (“La Prima Repubblica”) basata sul voto di scambio, truffe (i falsi invalidi), privilegi insostenibili (“quarantenni pensionati”), una liberalità altrettanto insostenibile nel creare privilegi assistenziali (“cosmetici mutuabili”), e l’uso del pubblico impiego per finalità clientelari (“seimila posti a Mazara del Vallo”). E, infine, descrive la totale mancanza di interesse per il futuro del paese e dei futuri suoi cittadini: “Ed i debiti (pubblici) s’ammucchiavano / come conigli / tanto poi / eran cazzi [sic!] dei nostri figli”. Milioni di italiani hanno riso per una realistica descrizione di mezzo secolo di assistenzialismo clientelare di cui gli italiani stessi a partire dagli anni 60 si sono resi responsabili, vendendo il proprio voto in cambio di politiche miopi, inique, inefficienti, insostenibili.

 

Zalone spiega che il lungo termine del voto di scambio è la decadenza morale, e la dipendenza clientelare da politici senza scrupoli. Spiega la genesi di un “sottoproletariato di lusso”: buoni a nulla privilegiati che costano molto ai contribuenti e restituiscono poco alla società. Spiega la miopia e l’ipocrisia di aver perseguito il proprio interesse di breve termine a spese della sostenibilità del “sistema Italia” nel lungo; l’iniquità di divorare il futuro dei nostri figli (e il nostro, che stiamo già vivendo il declino) in cambio di una baby pensione, di un posto fisso, di una finta invalidità: il sommo ideale politico degli italiani dagli anni 60 in poi è stato vivere a spese delle generazioni successive. La Prima Repubblica ci ha lasciato con l’anelito, l’aspirazione e la nostalgia per un mondo che tutti sappiamo essere corrotto, ma che era più sicuro del nostro mondo, ormai privo del surplus materiale per comprare valanghe di voti come accadeva in passato.

 

Viviamo le conseguenze di lungo termine – non solo fiscali o economiche, ma anche morali e intellettuali – di decenni di voti dati in cambio di privilegi meschini. Un degrado a trecentosessanta gradi da cui non riusciamo a uscire: sia perché come popolo non vogliamo svegliarci dal sonno narcotico del clientelismo assistenziale, sia perché la classe dirigente non cederà mai un proprio privilegio spontaneamente, come diceva Martin Luther King. Decenni di studi di public choice hanno mostrato che le politiche sono spesso miopi, che beneficiano pochi gruppi concentrati a danno di gruppi numerosi ma disorganizzati, e che gli elettori sono poco informati. Tutto ciò in Zalone è evidente, nel paese dove i danni descritti dalla public choice sono più profondi. In Rawls no, e non perché gli mancasse il materiale sperimentale: la public choice era già nota (e citata nei suoi libri), ma rimaneva – per scelta e non per limite di Rawls – ai margini.

 


Il filosofo statunitense John Rawls


 

La finta dicotomia tra realismo e idealismo

 

Realismo e idealismo rispondono a due domande diverse: come funziona il mondo, e come dovrebbe funzionare. Non si può quindi considerarli una dicotomia: è possibile porsi entrambe le domande, ed essere sia realisti che idealisti. Il contrario del realismo infatti è l’utopismo, la politica che non fa i conti con la realtà. E il contrario dell’idealismo è il cinismo, la politica priva di afflato ideale. Realismo e idealismo sono due dimensioni diverse del pensiero politico, come in un piano cartesiano. Si può essere realisti e idealisti, realisti e cinici, utopisti e idealisti, utopisti e cinici: realismo e idealismo separano il pensiero politico non in due poli opposti, ma in quattro quadranti.

 

L’utopismo, inteso come disinteresse verso la realtà, è inammissibile in un pensiero politico che aspiri a influenzare (possibilmente in meglio) la realtà. Sognare anarchie (Rothbard) o stati minimi (Nozick) senza porsi il problema di come superare gli ostacoli al liberalismo (voto di scambio, pressioni lobbistiche, miopia…) è futile. L’idealismo rischia poi anche di diventare mera giustificazione dell’esistente, anziché fuga dalla stessa. Locke può essere visto come la giustificazione ideologica della Rivoluzione Gloriosa inglese, come Rawls della socialdemocrazia: interpretazioni limitative, ma non infondate.
Ma dai limiti dell’idealismo non si può dedurre che il suo contrario – il cinismo e non il realismo – sia preferibile. Il cinismo realista di Koichi Toyama (un comico, o forse un sociopatico, giapponese: difficile dire se recitasse o meno), che urlava – candidato a sindaco di Tokyo – che la minoranza doveva distruggere tutto perché “finché si vota a maggioranza, sarà sempre la maggioranza a vincere”, fa ridere, ma non aiuta a migliorare il mondo.

 

Gli ideali sono rilevanti perché influenzano la realtà, modificando la nostra percezione della stessa: in molti stati del Sud degli Stati Uniti il segregazionismo era accettato, finché non arrivarono Rosa Parks e Martin Luther King a puntare il dito su questo orrore. Ma se Parks e King non avessero influenzato con il loro esempio e le loro parole i rapporti di forza – provocando l’intervento del governo federale – la loro opera sarebbe stata vana. Solo il potere sconfigge il potere: gli ideali diventano rilevanti quando influenzano i rapporti di forza. Una persona che crede da sola in un ideale sembra solo un disadattato, milioni di persone che ci credono sono una forza storica. Non fu Sophie Scholl a sconfiggere il nazismo, ma i corpi d’armata alleati: ma con milioni di Sophie Scholl il Nazismo non sarebbe mai nato. Antigone perde contro Creonte perché quest’ultimo mantiene il proprio potere: se Antigone ne avesse minato la legittimità, avrebbe vinto.

 

Spesso sentiamo parlare di legalità come sostituto del senso di giustizia: ma chi si affida alla legalità cede la propria libertà di coscienza alla classe politica. Sono duemilacinquecento anni che discutiamo della sepoltura di Eteocle e Polinice, e pensare a una soluzione semplice e lineare è mera hybris. Il realismo non ha bisogno di essere cinico. Da realisti, possiamo dire che Tucidide aveva ragione nel descrivere il rapporto tra potere e giustizia nei noti termini: “Siete consapevoli quanto noi che i concetti della giustizia affiorano e assumono corpo nel linguaggio degli uomini quando la bilancia della necessità sta sospesa in equilibrio tra due forze pari. Se no, a seconda; i più potenti agiscono, i deboli si flettono”. Ma lo stesso autore non dimenticava di sottolineare l’importanza della giustizia: “poiché non tanto chi effettua un asservimento quanto chi pur potendo cancellarlo, ne assiste inerte allo spettacolo, è il suo più autentico esecutore”. I Corinzi usano l’idea di giustizia per cercare l’alleanza e l’aiuto degli spartani: la giustizia serve a modificare o preservare i rapporti di forza. L’idea di giustizia separata da un tentativo di incidere sui rapporti di potere è mero flatus vocis.

 

Tradizionalmente, il liberalismo ha un approccio realista, ma ciò non significa affatto che il liberalismo sia un’ideologia realistica (cioè realizzabile). Il pensiero liberale nasce da osservazioni sulla natura del commercio, del potere politico, della divisione del lavoro, della cooperazione sociale. Adam Smith era un economista e un filosofo. David Hume e John Locke erano filosofi, ma anche economisti. Mises e Hayek economisti, e anche filosofi. “Il Federalista” di James Madison (et al.) è pieno di riflessioni sulla natura dei sistemi politici; come anche “La democrazia in America” di Tocqueville. Dal liberalismo si può imparare qualcosa della politica anche senza essere d’accordo sui suoi giudizi normativi.

 

Pensatori liberali idealisti sono invece rari: a parte John Locke, sia Nozick sia Rothbard sono contemporanei di Rawls, e quindi risultato della stessa “selezione avversa” che ha spinto i filosofi a parlare di giustizia in astratto. Questo non significa che il liberalismo sia realistico: Zalone descrive gli ostacoli che le riforme “liberali” si trovano di fronte, non potendo competere con il clientelismo sul campo di battaglia del voto di scambio, e non avendo nulla da opporre alla nostalgia per la tranquillità del posto fisso ottenuta al prezzo della dignità, tramite il voto di scambio. Anche il meta-fatto che si possa al contempo ridere della Prima Repubblica e sperare che ritorni non facendo nulla per superarla rende difficile cambiare il paese. Il liberalismo non si è mai adattato alla società di massa. A un secolo dal suo declino come ideologia centrale dell’occidente, continua a svolgere un ruolo secondario sul piano politico, solo in parte perché alcune sue istanze le diamo oggi per scontate. Il liberalismo impone di non usare la legislazione per favorire pochi a danno di molti, di non usare il debito per comprare il voto degli elettori di oggi a danno di quelli di domani, di adottare politiche che beneficiano tutti e non solo alcuni: ma se rifiuta tutti gli strumenti della politica, come può non essere politicamente impotente?

 

La strada per ottenere più liberalismo può essere quindi delegittimare gli strumenti contro cui non può competere, o mescolarsi (snaturandosi) ad altre ideologie (il “fusionismo” con i conservatori, o i “diritti civili” con la sinistra), sperando nell’eterogenesi di fini. Può giocare dentro le regole del gioco, come cercano di fare i liberali, che però non riescono a essere elettoralmente competitivi; o rovesciare il tavolo da gioco, come cercano di fare i libertari sviluppando un pensiero che cerca di delegittimare l’idea stessa di decisione collettiva (cioé politica). Entrambe le strategie sono necessarie, ed entrambe si scontrano con la realtà. Il liberalismo è il tentativo di arginare il ruolo del potere politico nella vita sociale, e fallisce miseramente nel XX secolo, il secolo dei totalitarismi, autoritari e democratici. Lo stato si espande in ogni settore e acquisisce un potere totale che neanche al tempo del Re Sole gli era concesso. Le idee liberali rimangono lettera morta perché non possono essere trasformate in voto di scambio; non sono nell’interesse di una classe dirigente che non abbandonerà mai volontariamente il proprio potere; non possono essere trasformate in slogan sufficientemente semplici per i dibattiti elettorali. E’ infine difficile sostenere un’organizzazione di massa senza l’appoggio degli interessi corporativi.

 

Se siamo convinti che politiche liberali – per quanto politicamente improbabili – siano necessarie, dobbiamo capire da dove viene la debolezza del liberalismo. Occorre cercare di influenzare l’idea di giustizia come strumento per influenzare i rapporti di forza; e cercare sia di giocare la partita dal di dentro sia di cambiare le regole del gioco per renderlo meno sbilanciato. Come diceva Koichi Toyama, non ho niente di costruttivo da proporre. Non ho un programma o una strategia. Non ritengo nemmeno che in Italia ci siano i margini per un cambiamento sufficientemente profondo da riuscire a interrompere il declino.
La giustizia è un’idea potente, e provocare un cambiamento delle opinioni diffuse sulla giustizia può mutare anche radicalmente la realtà, purché si facciano i conti con essa.

 

Non bisogna mai abituarsi a ciò che è ingiusto solo perché sembra inevitabile, e sottomettere la propria coscienza ai rapporti di potere (come vorrebbe certo legalismo), inclusa la “volontà della maggioranza” che spesso non è che la volontà di minoranze politicamente influenti. Le buone intenzioni non garantiscono il risultato: è sin troppo facile cambiare il mondo in peggio nel nome di un ideale. Anche per questo il realismo è fondamentale, ma se l’idealismo senza realismo è sterile, il realismo senza ideali è nichilista. Lupo Alberto diceva: “Chi non fa niente non fa niente di male”. Tucidide, invece, che chi non fa nulla contro il male è complice del male stesso. Vi lascio immaginare chi dei due abbia ragione.

 

Quelli pubblicati sono stralci di una lezione che l’autore ha tenuto giovedì14 aprile alla Scuola di Liberalismo di Roma della Fondazione Luigi Einaudi

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