L'interno dell'aeroporto di Bruxelles dopo le due esplosioni (foto LaPresse)

Quella differenza insanabile tra occidente e islamismo: il corpo

Massimiliano Valerii
Alla morgue di Bruxelles i corpi smembrati negli attentati ci ricordano che il rapporto soggettivo con la corporeità ha un valore politico che segna le differenze di civiltà.

Delle 34 vittime accertate degli attacchi di Bruxelles sono stati identificati finora solo due corpi. Delle altre persone che hanno perso la vita non si conoscono ancora con certezza i nomi. Le penose operazioni di riconoscimento sono rese difficili dalle condizioni in cui i corpi sono ridotti. “Abbiamo visto le persone saltare in aria e poi cadere pesantemente a terra”, hanno riferito testimoni presenti al momento delle esplosioni. “C’è sangue dappertutto, ci sono corpi smembrati ovunque”, hanno raccontato i cronisti nelle prime ore dopo l’attentato. Corpi dilaniati, tagliati in due, fatti a pezzi all’aeroporto Zaventem e alla metropolitana di Maelbeek, nel cuore dell’Europa. Ai familiari dei dispersi adesso viene chiesto se l’uomo o la donna che cercano avessero segni particolari sul corpo. Qualche tatuaggio, un piercing, cicatrici, nei? È attraverso quello che resta del corpo che passa la ricostruzione della loro identità: quei segni possono fare la differenza, altrimenti non rimarrebbe che il ricorso all’analisi del dna.

 

Alla morgue di Bruxelles c’è la testimonianza del valore politico che l’uso soggettivo del corpo assume nelle differenze di civiltà. Il corpo di ciascuno è un palinsesto in cui sono inscritte le biografie personali ed è stratificato il progresso dei nostri valori condivisi. C’era una volta il “noi” della borghesia vittoriana che foderava pudicamente le gambe dei pianoforti perché considerate licenziose. Dopo c’è stato un “noi” che ha approvato l’esibizione del corpo come congegno relazionale e ha legittimato il desiderio individuale di modificarlo, se non corrisponde a quello vagheggiato o se è fiaccato da défaillance fisiologiche, sancendo il diritto a desiderare un corpo diverso da quello che si ha. Possiamo passare con disinvoltura dai tatuaggi al piercing, ricorrere alla cosmesi o al lifting, tanto alla chirurgia estetica quanto all’ingegneria bionica, o molto più prosaicamente ci dedichiamo al fitness per modellare i bicipiti e rassodare i glutei, o alla wellness per raggiungere un livello di benessere psicofisico à la page. E poi c’è un “loro” ‒ quello dei corpi velati e dei corpi sottoposti alla sharia del radicalismo islamico – che i nostri corpi può farli saltare in aria, riducendoli alla nuda vita, al gradiente minimo della semplice esistenza biologica, distruggendo i valori culturali che essi incarnano. In questo senso, il corpo assume oggi un significato politico nuovo, che ci connota nella tensione dialettica con gli “altri” e marca la nostra specificità culturale, vissuta nel quotidiano e riverberata dai media.

 

Gli “anni zero” della società della comunicazione globale erano iniziati simbolicamente nel marzo del 2001 con la distruzione delle due enormi statue del Buddha scolpite nelle pareti di roccia della valle di Bamiyan, in Afghanistan, mentre le telecamere della Cnn riprendevano la furia iconoclasta talebana che si scaricava contro simulacri di corpi. Poi le immagini di devastazione degli attentati al World Trade Center di New York, con gli aerei che fendono i grattacieli di acciaio e cemento e il crollo delle Torri Gemelle trasmesso in diretta televisiva, sono entrate a far parte del patrimonio iconografico mondiale, riprodotte innumerevoli volte. Allora avevamo visto corpi umani cadere nel vuoto come manichini inanimati lungo il profilo incandescente delle torri. Poi ancora abbiamo visto teste mozzate, staccate dal resto del corpo dai jihadisti all’opera nei remoti deserti montagnosi dell’Iraq e nelle strade di ciottoli e polvere in Siria.

 

 

 

Ora lo scenario macabro di Bruxelles, che scuote violentemente le coscienze europee, mentre ci chiediamo inebetiti se siamo in guerra (per quanto in una guerra asimmetrica e non convenzionale), ci ricorda che si è aperto anche un fronte del corpo, lungo il solco tracciato tra un “noi” e un “loro” dal valore politico intrinseco nel libero uso soggettivo della corporeità.

 

“Non mi stupisco delle aggressioni avvenute contro quelle donne, il loro modo di vestire era inadeguato, erano mezze nude e avevano messo il profumo”, ha detto Sami Abu-Yusuf, l’imam di una moschea salafita, in un’intervista al Daily Mail. E mentre un capo religioso colpevolizza il profumo sul corpo delle donne per le aggressioni di Colonia nella notte di Capodanno, in Italia il settore della cosmetica non conosce crisi e da tempo la cosmesi è sdoganata anche come componente indispensabile del beauty case maschile.

 

Nel corso del tempo è aumentata la nostra attenzione per il benessere corporeo e ad essa ha corrisposto un crescente investimento di tempo, di energie e di denaro su una specifica dimensione del consumo che mette al centro il corpo e le sue diverse esigenze funzionali ed estetiche. Ciò implica la facoltà di manipolare, trasformare, migliorare il proprio corpo, quando non viene soggettivamente percepito come corrispondente al corpo desiderato. Significa, di conseguenza, la moltiplicazione di pratiche collettive finalizzate alla cura del corpo, con lo sviluppo anche di un mercato fatto di competenze, tecnologie, prodotti e servizi dedicati appositamente a questo fine. Legge del libero mercato: se c’è la domanda, si sviluppa l’offerta. Ma non si tratta solo di un’ampia e articolata fenomenologia sociale fatta di abitudini quotidiane e di modelli di consumo. Perché prendersi cura del proprio corpo non è solo un atto di vanità o solo una necessità relazionale. È una componente fondamentale di uno stile di vita che rinvia a valori che oscillano in uno spettro che va dal rispetto della dignità della persona (che implica l’inviolabilità del corpo) a una piena soggettività dispiegata (che in alcuni casi si pensa onnipotente, senza rimandi a leggi o autorità trascendenti).

 

 

 

In Occidente i diritti relativi alle decisioni individuali sulla gestione del corpo sono stati il perno di una evoluzione culturale e sociale che nel tempo ha modificato radicalmente i rapporti di genere, le forme familiari, le relazioni interpersonali. Il corpo è stato l’epicentro di processi di emancipazione (dalla minigonna di Mary Quant alle darkroom di Muccassassina, dalle rivendicazioni femministe allo sbriciolamento di tanti tabù sessuali) dettati dalla crescente soggettività, dall’autonomia dell’io che vuole decidere sempre di più su ogni dettaglio della propria vita. Fino ad arrivare sulla soglia oscura del poter decidere autonomamente anche la morte del proprio corpo con il gesto estremo dell’eutanasia.

 

Il corpo è un prodotto storico-sociale, dicono gli antropologi laicissimi. Con un ancoraggio trascendente universale, però, obiettano i credenti. Sono questioni di cui oggi discutiamo in un dibattito a più voci e spesso conflittuale, ma in ogni caso costitutive della nostra civiltà, tanto più nel confronto con modi di vivere e con sistemi di valori diversi dai nostri, con i quali siamo ormai chiamati a misurarci in un’arena globale sempre più aperta per impulso della globalizzazione e dei crescenti flussi migratori di persone appartenenti a etnie, culture e religioni diverse dalle nostre.

 

I codici occidentali dell’apparenza potranno rimandare a significati immanenti e frivoli, il relativismo etico può spingersi fino a informare una cultura di massa imbevuta di autocompiacimento collettivo, la solitudine dei corpi può riflettersi narcisisticamente nello specchio introflesso di un selfie digitale, il rivendicato primato del corpo può scadere nella patinatura commerciale o anche nella mercificazione pornografica. Ma, piaccia o non piaccia, il fronte del corpo assume un valore politico nuovo come specchio della nostra civiltà.

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