Nel 2009 Banksy ricoprì con un suo lavoro un graffito del 1985 di Robbo, su un muro del Canale di Camden a Londra

Maledetti writer benedetti

Maurizio Crippa
Da Banksy ai processi italiani. Perché la street art è diventata un gioco a guardie  e ladri. E anche il segno estetico del nostro mondo e del web. Un libro parteggia

Un paio d’ore dopo gli spari del Bataclan comparve su tutti i social del mondo occidentale il disegno che sarebbe diventato il marchio di #PrayForParis, un cerchio-simbolo della pace con al suo interno la Tour Eifell. Lo stile di uno stencil murale. Banalotto, a dire il vero, e infatti la sua viralità fu irresistibile. Comparve attribuito a Banksy, il più celebre degli street artist. Ovviamente non era di Banksy, che il giorno dopo negò, ma di Jean Jullien, un artista visuale francese che di solito non dipinge sui muri. Eppure il segno era street art, e la strada era il wall planetario dei social. Un caso che spiega meglio di altri esempi come il vero muro oggi sia lo spazio infinito del web. Si disegna sul web “come” se fosse un muro di strada. La notizia giunta dalla Gran Bretagna nei giorni scorsi che Banksy – l’artista misterioso di Bristol riuscito per un ventennio nella doppia impresa di divenire tra i più famosi e pagati del mondo e di rimanere senza identità – sia stato finalmente individuato è una non notizia e insieme lo è. Che corrisponda al Robin Gunningham quarantenne identificato attraverso la tecnica poliziesca della “profilazione geografica” era già stato scritto dal Daily mail nel 2008. Ma l’interesse per la sua identità risiede in ciò che Banksy è riuscito a fare in tutti questi anni, oltre a intestarsi tutte le sintesi grafiche di tutte le campagne più umanitariamente corrette del mondo. E cioè è di avere globalizzato la leggenda per cui la street art è una forma di protesta politica espressa nei modi dell’arte, e per ciò stesso inafferrabile e mutevole, nonché in grado di “appropriarsi del mondo” e di dargli nuovo senso. Molto bello. Molto utopico.

Piuttosto lontano dal vero. Sono 45 anni che la guerra tra i writer – o street artist, a seconda del tasso estetico, ma chi lo decide? – e i custodi del comune senso del pudore degli spazi comuni assomiglia a una guerra tra guardie e ladri. Ma allo stesso tempo è anche la battaglia, spesso generazionale e sociale, che le nostre società combattono con se stesse per l’interpretazione dei segni. Cioè attribuire loro i giusti significati. Lo scontro, spesso nello stile esilarante dei poliziotti di Keystone, è quotidiano. Qualche settimana fa il tribunale di Bologna ha condannato per il reato di “imbrattamento” la street artist AliCè, al secolo Alice Pasquini. Ma nel frattempo, il locale museo Genus Bononiae ha deciso di strappare alcuni suoi graffiti e trasferirli per poi esporli. Del resto, AliCè è un’artista nota anche all’estero. Invece l’altro ieri a Piove di Sacco sono stati “perdonati” alcuni minorenni che avevano disegnato su edifici pubblici di interesse storico: una bravata da ragazzi. Il 26 febbraio scorso è iniziato il primo processo mai arrivato in Cassazione contro il writer sardo-milanese Manu Invisible, per un graffito realizzato in un sottopassaggio ferroviario. Era stato assolto in due gradi di giudizio in base alla constatazione che il muro era già imbrattato anche prima, e poi pure lui è un artista conosciuto.

 

 

Arte o vandalismo? Rivoluzione o linguaggio dei segni, discorso sui segni? Alessandro Dal Lago e Serena Giordano hanno dedicato al tema un saggio rapido e intelligente, in uscita in questi giorni per Il Mulino: “Graffiti - Arte e ordine pubblico”. Dal Lago è un sociologo dei processi culturali nonché una storica firma del Manifesto, Giordano insegna all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Nella “piccola guerra civile, accanita e talvolta cruenta” – una guerra, come si legge nella citazione che apre il volume, per stabilire “a chi appartiene la città?” – il loro punto di vista è dichiaratamente orientato dalla parte dei writer. Meglio se anonimi, meglio se artisti capaci di restare fuori dal mercato dell’arte (Banksy, e non solo lui, vale migliaia di dollari). La storia inizia nel 1971 tra Bronx Harlem, quando il New York Times si accorse che le “tag” che ricoprivano muri e portoni stavano diventando innumerevoli, si moltiplicano ed evolvevano graficamente. Il primo a diventare “un writer” fu un diciassettenne di origine greca che si firmava “Taki 183”. Presa di possesso del territorio? Rivendicazione di esistenza in vita? Di diritti  sociali e civili? La cultura hip hop che esce dai ghetti afro e ispanici di quegli anni è lo squillo di rivolta e l’estetica di quello che presto diventerà moda culturale, marchio di fabbrica, cifra segnica  globale al pari del rap, della breakdance.

 

Perdendo il suo mordente iniziale, scrivono i due autori. La storia di questa guerra ha una preistoria, forse anche più interessante. Fu la stagione dei grandi muralisti degli anni ’30 come Diego Rivera, con la loro monumentalità eroica e inevitabilmente “progressista”, con il loro desiderio di trasformare il luogo pubblico, in luogo di estetica e di celebrazione. Di rivoluzione. Poi ci fu la pop art, che si prese in carico e si prese gioco dei segni della civiltà industriale di massa. Poi vennero gli artisti della strada. Da molti decenni, Dal Lago e Giordano lo spiegano e lo ammettono, un po’ controvoglia, quell’arte ha perso quasi in ogni caso e latitudine (ma ci sono casi e latitudini in cui non è così) la sua forza politica. E’ divenuta tutt’uno col mercato dell’arte, della pubblicità, col prodotto. Il celeberrimo “Hope”, di un graffitista famoso e quotato come Obey nel 2008 fu copertina di Time per Obama. Arte rivoluzionaria o mercato? Contrariamente ai puristi, si potrebbe dire che l’arte inizia quando c’è qualcuno disposto a pagarla. Se no sei un pittore (murale) della domenica. Dal Lago e Giordano hanno gioco facile quando si domandano cos’hanno in comune Matteo Salvini e Giuliano Pisapia: che uno inneggia alla condanna “a 9 mesi di galera e 3 frustate” inflitta a Singapore a due graffitari, mentre la giunta Pisapia decise di denunciare i writer per “associazione a delinquere finalizzata all’imbrattamento e al deturpamento degli edifici”.

 

Ma al di là della politica e delle liti di condominio, le cose interessanti sono altre. Ad esempio che dall’avvento del web il muro è diventato virtuale e globale. Le estetiche di stencil, blockletter, motion tag sono diventate il segno grafico della contemporaneità, soprattutto giovanile. La vera guerra è piuttosto capire come quei segni che hanno invaso stabilmente non solo le nostre città, ma anche i social e le pubblicità, le sigle televisive e i bar e persino i salotti – insomma il nostro occhio e la nostra percezione dello spazio – abbiano ancora qualcosa da comunicare, oppure no. O se si siano arresi all’invisibilità del quotidiano. Se la cifra della trasgressione sia evaporata come un aerosol. Per banalizzazione contenutistica ed estetica, il più delle volte. Resta visibile, soprattutto nelle culture urbane giovanili, la necessità di taggare per essere vivi. E del resto è da qui, da un banale scarabocchio sul portone di casa, che anche Dal Lago e Giordano erano partiti. Da quei giovani con anelito di firma ma senza un “discorso” da fare, o un “linguaggio” da organizzare.

 

[**Video_box_2**]Ma forse l’anima resistente alle sbianchettature della street art sta in quel suo spirito giocoso, cavalleresco, nel giocare a guardia e ladri con lo spazio di tutti e con quel che ci si immagina possa o debba essere. Come qualcosa che ironicamente si “giustappone” al “grigiore, al degrado, o anche al lusso delle metropoli”, per citare gli autori. Come la celebre sfida, che sembra fuori dal tempo e dalle logiche come i Duellanti di Ridley Scott, tra Banksy e un altro noto writer inglese, Robbo. Iniziò quando nel 2009 Banksy ricoprì con un suo lavoro un graffito del 1985 dell’altro, su un muro del Canale di Camden a Londra. Andarono avanti anni a ricoprirseli l’un l’altro. Finché, quando nel 2011 Robbo finì in coma per un incidente, Banksy restituì al rivale il “suo” spazio. Sotto un ponte di città.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"