I petalosi anni Ottanta. Perché nessuno come i paninari sapeva forgiare parole nuove

Antonio Gurrado
Quando avrete dimenticato il bambino petaloso, ricordatevi dell’adolescente paninaro e rimpiangete i tempi in cui gli italiani sapevano forgiare parole senza che un isolato atto di creatività minorile monopolizzasse l’attenzione delle masse che non riescono mai riuscire a elevarsi sul piattume del lessico conformista.

Quando avrete dimenticato il bambino petaloso, ricordatevi dell’adolescente paninaro e rimpiangete i tempi in cui gli italiani sapevano forgiare parole senza che un isolato atto di creatività minorile monopolizzasse l’attenzione delle masse che ininterrottamente scrivono sui social, su whatsapp, via mail e perfino negli sms senza mai riuscire a elevarsi sul piattume del lessico conformista. Non parlo di Dante né di Pascoli, parlo degli anni Ottanta in cui si scriveva come ricostruì esemplarmente Filippo Facci in un vecchio articolo: “Non me ne sdruma delle tue pare assurde, io sgommo al brucio per non fare un pacco alla tipa cuzzata di fresco”. Consideratene ritmo e veemenza, felice sintesi (meno di 140 caratteri) e polisemia. I vituperati paninari sono stati inchiodati alla responsabilità di avere impoverito il linguaggio perché identificati con l’interiezione jolly “Troppo giusto!” di Enzo Braschi a Drive In; rileggendoli oggi, si capisce invece che avrebbero cambiato la storia della lingua italiana se fossero stati presi sul serio dalla Crusca.

 

Non se ne accorge Paolo Morando. Il suo “’80. L’inizio della barbarie” (Laterza) è troppo impegnato a segnalare che “non si contano i parallelismi tra la cultura paninara e lo sfascio morale della stagione delle Noemi, delle D’Addario, delle Ruby” (aridaje), ipnotizzato forse da argomentazioni per cui “la sfitinzia si fa cuccare più facilmente dal cucador possessore di scarpe importate dagli Stati Uniti perché, stando attento anche a questo particolare, egli dimostra di essere un vero paninaro gallo di Dio”. Se avesse pensato alla forma più che al contenuto, col materiale raccolto per il libro avrebbe dimostrato che gli italiani di oggi non sono la feccia di quel degrado morale ma l’imponderata contrazione di una sovrabbondanza creativa che si scatenava quando definiva i propri nemici, i diversi: buri, cinghios, cionchi, darviosi, brozzi, fantatazzorri. Cos’è più paroloso di questa definizione che Davide Rossi dà nella “Guida al paninaro DOC”? “Gino significa stupido, grezzo, sciocco, non à la page, sempre fuori luogo, insicuro, intimidito, timoroso”, tutto in due sillabe. Rossi era la mente dietro il Paninaro, giornaletto per panozzi da 100.000 copie regolari, 150.000 nei mesi buoni, dalla  cui costola nacque “Preppy”, versione rosa per le panelle. Ai giornaletti i paninari scrivevano con disinvoltura meglio di metà dei prosatori d’oggi: “Chi vi manda il papiro è Alex, galloso di Fano, città delle Marche da non sottovalutare”; “Vorrei corrispondere con panozzi e panelle di tutto il Durango”, con sublime equazione fra una marca di stivali e l’Italia intera. Negli stessi anni Pier Vittorio Tondelli rimproverava agli aspiranti scrittori under 25 di spedirgli pessimi manoscritti artificiosi accompagnati da lettere che spiccavano per spontaneità creativa, tanto che avrebbe voluto pubblicare solo quelle.

 

[**Video_box_2**]I paninari invece avevano il vantaggio di non produrre manoscritti (a parte “Sposerò Simon Le Bon” di Clizia Gurrado; nessuna parentela, purtroppo) ma lettere e basta: “Io sono una paninara di Roma (purtroppo). Non ce la faccio più a essere derisa da tutti questi schifosi tozzi (infatti Roma è infestata dai tozzi, purtroppo) che dicono che devo andare affan… a Milano e scrivono sui muri delle cose che fanno schifo su di me e i my friend panozzi. A volte, anzi quasi sempre mi prendono a schiaffi, certo non degli schiaffoni, ma mi disonorano!” – e la redazione, anziché lamentare bullismo e femminicidio e altre dissonanti parole di piombo, rispondeva soave: “In quest’epoca di disintegrazione dei valori, di preoccupante lassismo, di spaventosi compromessi e patteggiamenti, riempie di speranza i nostri animi sapere della tua dirittura morale, del tuo coraggio. Riscrivici, racconta con freddezza il tuo martirio: ne faremo un mito”. Scherzavano, ovvio; e oggi l’Italia ha disimparato a giocare col linguaggio perché non scherza più, non vuole più essere un Durango stragallosissimo di Dio.

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