Teniamoci stretto Tarantino, il nostro Shakespeare contemporaneo

Mariarosa Mancuso
Sarà l’anno di Shakespeare, il 23 aprile ricorrono i quattrocento anni dalla morte. Approfittiamone per celebrare Quentin Tarantino e “The Hateful Eight”, invece di storcere il naso e rimproverare il regista per il sangue e le ammazzatine.

Sarà l’anno di Shakespeare, il 23 aprile ricorrono i quattrocento anni dalla morte. Approfittiamone per celebrare Quentin Tarantino e “The Hateful Eight”, invece di storcere il naso e rimproverare il regista per il sangue e le ammazzatine. In “Shakespeare nostro contemporaneo”, lo studioso polacco Jan Kott riassume così il “Tito Andronico”: “Trentacinque cadaveri, senza contare i soldati, i servi e i personaggi secondari. Dieci grandi delitti vengono compiuti sotto gli occhi degli spettatori”. Tarantino è il nostro Shakespeare contemporaneo, teniamocelo caro a dispetto di certe critiche tiepide (del resto anche Samuel Johnson, in uno dei giudizi più clamorosamente sbagliati nella storia della critica, sentenziò: “Shakespeare sulla scena perde tutto”).

 

Teniamoci caro Tarantino perché sa scrivere. Sa scrivere come nessun altro riesce a scrivere oggi (vale anche per parecchi romanzieri, ancor di più per chi inneggia alla scrittura sdegnando la trama). Se poi ai critici che vedono “The Hateful Eight” non viene in mente William Shakespeare, ma solo “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie, sono liberissimi di farlo: ognuno ha le sue letture, ognuno ha il suo punto di vista, ognuno ha il diritto di sbagliare come fece Samuel Johnson. Ognuno se vuole ha il diritto di rispolverare l’antipatica etichetta di “opera minore” (che non si è mai capita, neanche sui manuali scolastici, figuriamoci quando dobbiamo scegliere il film da vedere). “The Hateful Eight” – sarebbe “Gli odiosi otto”, ed è anche l’ottavo film di Tarantino – si presenta come un classico fin dalle prime inquadrature (contribuisce il formato Ultra Panavision 70 millimetri, in Italia solo per pochi eletti spettatori, al cinema Arcadia di Melzo e a Cinecittà). Neve sulle montagne del Wyoming, un Cristo in croce, una diligenza con un cacciatore di taglie e una prigioniera, un viaggiatore (nero con cravatta rossa) che chiede un passaggio onde salvarsi dalla tormenta, per sé e per i tre cadaveri del suo bagaglio. A Red Rock, dove sono diretti, uno incasserà gli 8.000 dollari dei morti, l’altro ne beccherà 10.000 consegnando la prigioniera all’impiccagione. Le canaglie fanno tappa alla locanda di Minnie, dove incontreranno altre canaglie fino al numero convenuto – un sedicente sceriffo, il boia incaricato, un vecchio che pare incollato alla sua poltrona, un mandriano, un messicano – e intanto parlano. Si studiano, si contano le bugie, si insultano, si  minacciano, rievocano episodi della Guerra di secessione, mentre il boia celebra la superiorità della giustizia amministrata da terzi e per conto dello stato rispetto alla giustizia privata (qui, “frontier justice”).

 

[**Video_box_2**]Sappiamo che tutte quelle pistole spareranno, prima o poi, e anche il pentolame potrà essere usato come arma. Ma sono i dialoghi, la stratificazione dei personaggi, il gioco delle rivelazioni, l’ironia dei riferimenti (western o non western, Tarantino ruba a tutti, pure Shakespeare fu accusato di farsi bello con le trame altrui) a rapirci. L’equilibrio tra il visionario e il grottesco risulta miracoloso, gli attori fanno risplendere ogni sfaccettatura del testo. Un vantaggio aveva Shakespeare, ai suoi tempi beati: nessuno che gli alzasse il ditino moraleggiante, e lo rimproverasse per la mancanza di un eroe positivo, quando alla fine di una tragedia nessuno restava vivo.

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