Il presidente dell'Iran Hassan Rohani durante la visita a Roma (foto LaPresse)

L'Iran ci ha tagliato la lingua e la mano

Giulio Meotti
Rushdie, Charlie e le statue: Teheran ci ha imposto le sue regole. Dai “Versetti Satanici” a quanto successo martedì a Roma, così ci ha costretto alla resa.

Roma. “Non posso credere che la patria di Dante, Ariosto, Montale, Pirandello, Ungaretti e Calvino non abbia la volontà di difendere la più individuale e polimorfa delle arti, cioè la scrittura”. Scriveva così Salman Rushdie sul New York Times per accusare l’allora ministro degli Esteri italiano, Susanna Agnelli. Rushdie raccontò che “quando l’Italia aveva la presidenza dell’Unione europea, il governo e il ministero degli Esteri italiani rifiutarono di rispondere ai nostri appelli per intensificare la pressione politica su Teheran”. Allora era un libro, “I Versetti Satanici”. Oggi sono le statue ai Musei capitolini di Roma. Velate e censurate entrambe in ossequio alla “sensibilità” di un turbante iraniano, ieri Khomeini oggi Rohani. Ci vorrebbe un minimo di coerenza e di decenza non soltanto da parte di chi ha rimosso quelle bellissime statue dalla vista di Rohani, ma anche da parte di chi si scandalizza tanto. Dov’erano quando venivano pixelate le vignette su Maometto e le copertine di Charlie Hebdo, costate la vita a otto giornalisti? Nel computer di uno dei fratelli Kouachi, gli attentatori che hanno decimato la redazione di Charlie Hebdo, è stata ritrovata una fatwa, un editto religioso, datata 14 febbraio 1989, in cui l’ayatollah Ruhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica islamica dell’Iran, condannava a morte il romanzo di Rushdie. Da allora, l’Iran si è mangiato una parte importante della nostra libertà di dire e pensare.

 

Lo scorso autunno, la delegazione iraniana ha boicottato la Fiera del Libro di Francoforte perché c’era proprio Rushdie come ospite d’onore. Una pressione talmente forte sulle democrazie europee che queste capitolano sempre in gran fretta. La fatwa di San Valentino del 1989, che per prima al mondo s’è arrogata il diritto di disporre della vita di un letterato o di un giornalista, ha gettato un’ombra sul libero sviluppo della letteratura in ogni parte del mondo. Noi italiani che ci scandalizziamo tanto per la decisione di velare le statue abbiamo dimenticato in fretta l’editore Gianni Palma, a lungo minacciato di morte per aver portato il libro di Rushdie in Giappone, dove al traduttore andò peggio (Hitoshi Igarashi venne sgozzato dagli iraniani). Abbiamo dimenticato del compianto Ettore Capriolo, docente alla scuola d’arte drammatica del Piccolo, che ha pagato con una serie di coltellate, sempre da parte di un iraniano, l’aver tradotto Rushdie per la Mondadori. Da allora, gli iraniani ci hanno imposto il loro vocabolario e la loro ideologia sulla libertà di espressione e l’islam. Dopo la strage di Charlie Hebdo, il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Marzieh Afkham, condannò “ogni attentato contro i civili”, ma aggiunse anche che “non dobbiamo abusare della libertà di parola”. Da Obama ai giornalisti italiani, passando per il pugno simulato da un pontefice, abbiamo assimilato questo linguaggio iraniano.

 

Le statue di Roma sono le ultime vittime di una guerra dei trent’anni contro la “blasfemia” in cui abbiamo rinunciato a romanzi, vignette, titoli di giornale, opere teatrali. Sooreh Hera è un’artista iraniana che aveva presentato al Gemeente Museum dell’Aia una serie di opere fotografiche che ritraevano coppie omosessuali. Il quotidiano iraniano Keyhan pubblicò un editoriale di Hossein Shariatmadari, un capo dei pasdaran, che diceva che Sooreh Hera doveva essere uccisa. Il museo chiese a Hera di autocensurarsi, lei rifiutò, così alla fine il suo spazio rimase vuoto. Come un quadro postmoderno. Ranti Tjan, il direttore del museo di Gouda che si era coraggiosamente offerto di esporre le immagini censurate all’Aia, venne posto sotto scorta e anche lì, a causa delle minacce, la mostra fu cancellata. E l’elenco di “successi” iraniani non si ferma qui. Rushdie fu costretto a nascondersi per quasi un decennio. Tanti editori ritardarono la pubblicazione, i politici temporeggiarono, Rushdie si scusò.

 

L’Accademia svedese, che assegna il Nobel per la Letteratura, rilasciò una ridicola dichiarazione su Rushdie, assolutamente priva di spina dorsale. Il re del giallo John Le Carré definì Rushdie un “cretino”. Su Charlie hanno detto di peggio, “coglioni e masochisti”. Questa non è soltanto la storia di una guerra, ma anche di una resa e di un’abiura. Questo ci dice il velo in Campidoglio e il pixel alle vignette blasfeme. Che l’Iran ci ha già tagliato la lingua e la mano.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.