Il regista Spike Lee (foto LaPresse)

Ma quale razzismo. A decidere le quote etniche nei film di Hollywood è il mercato

Manuel Peruzzo
Le premiazioni per gli Oscar scatenano i nuovi tic pol. corr. di Spike Lee che scomoda anche Martin Luther King per chiedere quote etniche o di genere nei casting. Ma se solo guardasse i numeri degli incassi al botteghino capirebbe che il razzismo non c'entra niente.

Volete sapere quanti sono i minuti totali in cui un attore nero recita in "Rebecca" di Hitchcock o in "Lo Squalo" di Spielberg? Zero. Che è esattamente quanto questo discorso dovrebbe valere in un mondo dove la rilevanza non è espressa in minutaggio etnico nei boxoffice o nella storia del cinema. Non è così per il Guardian, che con un tic politically correct insiste affinché ogni film abbia una quota afro-americana, latina, e così via, fino a un cast multiculturale che rappresenti tutti, auspicando un 'impegno hollywoodiano in questo senso.

 

Non troverete un solo articolo sulla stampa americana riguardante gli Oscar che si discosti dalle stesse convinzioni. Anche quest’anno gli attori nominati sono tutti bianchi, anche quest’anno è partita la lagna sulla sotto-rappresentazione degli afro americani al cinema. Lunedì Spike Lee ha colto l'occasione dell'anniversario della nascita di Martin Luther King per annunciare la sua deliberata assenza alla notte della premiazione il prossimo febbraio. A novembre aveva ritirato il premio alla carriera, ma questa volta ha riesumato per l'occasione l'hashtag #Oscarsowhite. Il regista ha altresì precisato di non voler mancare di rispetto al presentatore Chris Rock (nero), al produttore Reggie Hudlin (nero) e alla presidentessa degli Academy Cheryl Boone Isaacs (nera). Eh sì, è proprio un covo di bianchi razzisti.

 

Ne potremmo concludere, come qualcuno ha già fatto, che le nomine riflettono un pregiudizio istituzionale nei confronti delle minoranze e delle donne all’interno dell’Academy: chi sceglie è un maschio bianco in media sui sessantacinque anni, poco sensibile all’attivismo da tastiera degli indignati in pigiama, o a Spike Lee. Ma forse sarebbe solo pigrizia.

 

Secondo Variety è Hollywood il problema: "Quest’anno ci sono stati 305 film eleggibili. Se l’ingaggio riflettesse la popolazione degli Stati Uniti, gli elettori degli Oscar avrebbero vagliato oltre 150 film diretti da donne, 45 diretti da neri, 50 da ispanici, e decine di film di registi che sono asiatico-americani, LGBT, persone con disabilità e dei membri delle altre minoranze", idea ribadita da Whoopi Goldberg su Hollywood Reporter: "Il problema non è che i nominanti sono bianchi.È che le persone che finanziano i film non credono ci sia spazio per film neri, o latini o con donne". Hollywood non produce film con protagonisti neri perché chi ci mette i soldi preferisce così. Mica perché i film con le minoranze di solito o sono il Colore Viola o sono riservati a un manipolo di cinefili e non vendono.

 

Questa concezione demografica di Hollywood da voucher per parcheggio disabili non riflette nulla se non il senso di colpa americano nei confronti di minoranze politicamente ed economicamente svantaggiate. In realtà, in tutti i settori dell’intrattenimento l’unica legge che vale qualcosa è quella dei soldi: se fai guadagnare, vali. Per questo in televisione regnano incontrastate Oprah Winfrey e Shonda Rhimes, e ci sono serie come Black-ish, Empire e Scandal; è sempre per questo che nella top 100 di Billboard ci sono Drake, Selena Gomez, Beyoncé, Ariana Grande, Travi$ Scott. (Certo, ci si lamenta anche lì alle premiazioni, come ha fatto Nicki Minaj, ma anche lì è del tutto pretestuoso). Nel cinema questo non accade, o accade meno. Quest’anno ci sono state opportunità mancate, si dice, come Creed, Straight Outta compton e Beasts of No Nation, ma guarda caso l’unico non-bianco cui è stato offerta la possibilità di gareggiare è Alejandro Gonzalez Inarritu, nominato nella categoria "incassi stratosferici".

 

In una tavola rotonda organizzata dal New York Times sull’argomento, un paio di giornalisti hanno avanzato l'ipotesi mercatista che il pubblico sia favorevole e voti coi propri soldi affinché sullo schermo venga rappresentato in quanto multiculturale. Ma se confrontiamo queste ipotesi con i dati della Motion Picture Association of America (MPAA), scopriamo che sul totale dei biglietti staccati il 63 per cento è stato venduto a caucasici, il 17 per cento a ispanici e il 12 per cento ad afro americani. Insomma, secondo la lagna universale esiste un gruppo di vecchi reazionari che estromette orde di attori asiatici e neri dai cast di film potenzialmente promettenti. In realtà, numeri alla mano, è possibile che l'onnipotente legge di mercato escluda i neri perché non spendono al cinema quanto spendono i bianchi.

 

[**Video_box_2**]C’è un altro problema, più generale, che riguarda il concetto di minoranza in quanto tale. Il fatto che si legga della mancata nomina di attori neri è considerato positivamente, è come la percezione che manchi qualcosa di ben diffuso nella società (noi in Italia non diremmo mai che mancano i neri o i molisani al David di Donatello o alle interviste da Fazio). Ma ciò sottintende un’idea fallace: che Hollywood sia un ente governativo che debba rappresentare tutti. E invece ci deve intrattenere. Quelle che mancano sono le opportunità, e occorre insistere per scoprire se i neri non vadano al cinema perché non si ritrovano sullo schermo, o se invece non ci siano sullo schermo perché non vanno al cinema. Imporre una quota nei casting o nei film non ha senso proprio come imporre più donne in quanto donne o più omosessuali in quanto omosessuali al cinema, in banca, o in Parlamento. Di fatto l'esigere quote, rosa, gay, lesbo, trans, non fa altro che spostare di anno in anno il focus sul panda da salvare, la porzione marginale - si fa per dire - della società da includere per far bella figura. Quest'anno vanno i transgender (Danish Girl) e le lesbiche (Carol), e quindi niente neri in quanto neri. Forse è meglio concentrarsi su quelli bravi.