David Bowie (foto LaPresse)

Quello che i millennial non sapranno di Bowie. E non solo in musica

Giulia Pompili

Come si fa a spiegare David Bowie a un ragazzo nato negli anni Duemila. La rivoluzione che è stato, per almeno quarant’anni

Roma. Come si fa a spiegare David Bowie a un ragazzo nato negli anni Duemila. La rivoluzione che è stato, per almeno quarant’anni. Forse non lo sappiamo bene nemmeno noi, che siamo nati negli anni Ottanta, quando Bowie aveva ormai già pubblicato “Let’s Dance” e il brano “Cat People (Putting Out Fire)” scritto insieme con Giorgio Moroder, un nome che oggi anche i ragazzini conoscono grazie alla nuova giovinezza vissuta con i Daft Punk. Noi ci siamo persi “Ziggy Stardust” ma in fondo non proprio tutto, per fortuna. E però Bowie, e i suoi ultimi anni d’assenza, come si risolvono? “Reality”, “The Next Day”, sono album difficili, per non parlare dei precedenti “Tin Machine” I-II, inascoltabili per giovani orecchie abituate ai suoni d’oggi. Non si può partire da lì, bisogna tornare indietro. E davvero non basta la musica né l’avvento di internet, che ha fatto della composizione un luogo senza tempo in cui un pezzo di sessant’anni fa può tornare attuale, come fosse stato scritto l’altro ieri. Si parlava, nei giorni scorsi, della fine della vecchia Mtv, la televisione musicale che fece dei videoclip quintessenza della produzione artistica. Sì, esisteva un canale che trasmetteva tutto il giorno video musicali. E Bowie fu disruptor anche in quel campo (esempio: “Little Wonder”, anno 1997).

 

Come si fa a spiegare a un ragazzino che il Duca Bianco era un artista pur non avendo mai preso una posizione politica netta, politicamente corretta, unendosi mai ai cori à la Elton John pur essendo considerato, di volta in volta, icona di qualcosa. Forse si può sintetizzare così: David Bowie è stato per la musica uno Steve Jobs. “Di sicuro è stato qualcosa di molto particolare nel mondo della musica, perché ha attraversato varie ere cambiando continuamente il look esteriore, ma restando fedele a se stesso, ovvero un incredibile sperimentatore”, dice al Foglio Red Ronnie, giornalista, presentatore musicale e – tra le altre cose – ideatore di Be Bop a Lula  e del Roxy Bar, due trasmissioni che hanno portato la musica nella televisione italiana. Ronnie ospitò Bowie a Be Bop a Lula, lo vide in concerto nel 1978, lo intervistò quattro volte: “La cosa che mi colpiva, ogni volta che l’ho incontrato, era la sua calma, la sua sicurezza, la sua serenità. Quando registrò ‘Black Tie White Noise’ nel 1993 mise tra le tracce ‘I feel free’ dei Cream. Gli domandai: ma tu ti senti libero?”. Conosciamo già la risposta. Ma oggi gli artisti sono altrettanto liberi? “Non è un mistero che quando Bowie si presentò a una serata di imitatori di Bowie, e facevano entrare solo quelli che gli somigliavano, beh: non lo fecero entrare. Lui si divertiva molto a raccontare quell’episodio, ma è indicativo: in un mondo di imitatori, uno come lui oggi non avrebbe più spazio. Anche Mogol pensa che Mogol e Battisti non sarebbero pubblicati, oggi. Parliamo chiaramente: quando se ne va uno come Bowie, oppure in Italia personaggi come Lucio Dalla, Pino Daniele, è come se togliessimo dalla biblioteca della musica un volume troppo grosso, che non può essere rimpiazzato. Del resto, l’industria musicale oggi non permette ai veri artisti di emergere, ma solo quelli che piacciono ai ragazzini, quelli che hanno una voce potente, i bellocci”. Dunque c’è stato un momento in cui non era il mercato a fare le regole dell’industria, ma appunto, come si fa a spiegarlo a un Millennial? “Non si può. E’ una cosa che non possono vivere, lontana dal loro tempo. Oggi la musica non ha più l’importanza che aveva quando ero ragazzino. La musica influenza le menti, è pericolosa, gli artisti musicali veri sono degli emarginati, è anche per questo motivo che oggi si scarica gratis su internet. L’influenza che uno come Bowie aveva sui ragazzi non ce l’ha più nessuno”.

 

[**Video_box_2**]Ecco, eppure quando lui si dichiarò gay in un’intervista – salvo poi sposare Iman e restare marito e padre per più di vent’anni – c’è stato un periodo in cui non si poteva dire di essere ammiratori di Bowie: “E’ vero. Oggi però tutto è sdoganato”. C’erano degli insospettabili tra i suoi fan, nel rito collettivo di condoglianze via social network. Bowie era un conservatore, aveva una passione neanche troppo celata per il Giappone tradizionale e Yukio Mishima, per l’onore, l’integrità. “La battaglia politica non gli interessava”, dice Ronnie, “Se ne va lasciandoci ‘Lazarus’, che è un monito, un messaggio forte, e canzoni come ‘The Angel Have Gone’, ‘Changes’, ‘Ashes to Ashes’”. Forse è già abbastanza.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.