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La vita e la morte di Bowie come opere d'arte

Stefano Pistolini

Ucciso da un cancro a 69 anni, il cantante inglese è stato un’icona paragonabile a Salvador Dalí e Man Ray. Prima di andarsene ha pubblicato “Blackstar”, album futuribile e testamento sonico e visuale della sua carriera

Com'è inevitabile che sia, solo adesso, "a posteriori", procederemo a storicizzare il percorso di David Bowie – scomparso a New York City, dopo aver lottato con il cancro – non tanto in base alle sue meravigliose canzoni, ma come un unico, teso progetto artistico dominato dal perfezionismo, dall'ansia innovativa, dal desiderio di sperimentare – e anche da tanta umana, nervosa disperazione.

  

In morte di Bowie, il primo istinto è di collocarne l'icona accanto a quelle di Salvador Dalí e di Man Ray, piuttosto che di Lennon o di Elvis, visionario designer della contaminazione tra mondo dei sogni, fashion magazine, stimoli della fantasia, brandelli delle cronache internazionali, ansie dell’uomo occidentale, convinto che il successo, il piacere e la celebrità siano l’espressione d’una vita vissuta appieno. Le titaniche figurazioni della sua carriera sono segmenti di arte attuale, esplorazione della visione, elucubrazione estetica fino all’estasi e al delirio: dal gigolò di “Life on Mars” al malinconico alieno colorato Ziggy Stardust, al lunare mucchio d'ossa degli Hansa Studios affacciati sul muro di Berlino, fino al clone impalpabile, inattuale attraverso il quale si è accommiatato negli ultimi anni, volendo lasciare un'ultima traccia di pubblica presenza, ma rarefatta, teatrale, simile a un'installazione (guardate e ascoltate ciò che ha prodotto dalla rentrèe di “Next day” fino a “Blackstar”, fatidicamente pubblicato venerdì scorso, in coincidenza con l'addio, confondendo passato e futuro, trapasso e messaggio).

  

Da artista convinto della necessità dell’arte, al punto da soffrirne un esistenziale assoggettamento, Bowie ha accantonato fino all'ultimo le vicende della sua biografia, giudicandole irrilevanti rispetto agli slanci dell’ispirazione. Così, anche alla propria dipartita ha dato la forma conchiusa dell’ennesimo blitz nel mistero della bellezza. Perché è impossibile non vedere nel disco che in queste ore esce nel mondo, il suo testamento sonico e visuale, così come nei folli video che l’accompagnano, nei quali è l’ineluttabilità della morte a dominare la scena e il gesto dell'artista, ben oltre il lamento, è quello della contemplazione, della lucidità e dell'esperienza. Il fascino dell’album, delle canzoni e più in generale dell'atmosfera che trasuda dai suoi solchi, è quello della decisa intenzione, fino all'ultimo gesto, di guardare in avanti, di iscrivere all’elaborazione di forme e contenuti inediti l'accumulo di conoscenze acquisite nel corso della propria ricerca.

   

  

“Blackstar”, se non un nuovo inizio, è un album assurdamente futuribile, in cui Bowie indaga soluzioni inaspettate e cerca ostinatamente un suono che ancora non appartenga a nessuno, con la precisa volontà, come ha detto il suo produttore Tony Visconti, di "stare alla larga dal rock", ossia dal già sentito e dalle celebrazioni. Ci lascia così, Bowie, in proiezione dinamica verso il domani come uno schizzo futurista, con una lezione intransigente che lo estrania dalle sale della Rock'nRoll Hall of Fame, consegnandolo alla storia dell'arte come un performer assoluto. Al tempo stesso, da sempre torturato dal tarlo della sua stessa umanità, delle debolezze a cui ha soggiaciuto, le tentazioni, le trasgressioni, la vita inafferrabile per la velocità con cui è fuggita, trascinando via la ruggente voglia matta degli inizi, per farsi compromesso e ragionamento.

  

 

Ogni biografia di Bowie lo descrive come un uomo perennemente inquieto, insoddisfatto, volubile e insaziabile. Solo col passare degli anni, verso la terza età alla quale non è mai approdato, avrebbe trovato nel culto della privacy e nel distacco dal proprio alter ego artistico, la formula d’un apparente equilibrio. Ma chissà se è davvero stato così, chissà quali sono stati i progetti irrealizzati, le occasioni mancate che David porta con sé, in questo commiato che ammutolisce una moltitudine di ammiratori, cresciuti seguendolo e imitandolo. Maestro del costume, che quella magnifica mostra al V&A Museum di Londra degnamente ha saputo rappresentare; detentore di una formula musicale che ha scavalcato i generi ed è divenuto moda melodica, descrizione del progresso, critica tagliente delle nostre inanità.

  

L'immagine in calce a questo ricordo è la copertina di “Pinups”, comprato nel 1973: una foto camp, scattata dal complice Justin De Villeneuve, in cui David è bellissimo, nudo in piano americano, la pelle diafana, liscia come fosse di marmo, o forse di plastica. Sulla testa si erge il casco di capelli rosso fuoco, lascito della precedente identità di Uomo delle Stelle. Sulla sua spalla poggia mollemente il capo Twiggy, lasciva come un angelo caduto. Bowie ci guarda dritti in faccia, con l'aria stupita e preoccupata di chi deve rivelare ciò che ha scoperto sul come siamo davvero fatti. Non c'è allegria nella composizione, ma la perfetta cristallizzazione di un’evoluzione estetica. Suggerisce che viviamo di aspirazioni, pronti a tutto per soddisfarle. E che, se saremo fortunati, moriremo cantando, magari le canzoni del nostro nuovo, ultimo e dandyssimo album. E che tutto ciò è un po’ tragico, ma anche ridicolo, grandioso, insulso. E molto, molto glam.

  

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