Negli anni Novanta i trentenni di oggi ascoltavano gli Oasis oppure Blur (qui sopra, nella foto di Bobby Doherty in occasione dell’uscita dell’album “The Magic Whip”)

Numeri positivi

Antonio Pascale
Trentenni che vi lamentate di come va il mondo, cambiate visuale. Vi spiego perché l’occidente è ancora padrone del pianeta. Nell’800 le persone povere con poca possibilità di cambiare la propria vita erano l’85 per cento. Ora sono il 12 per cento.

In treno, accanto a me, ci sono due ragazze intorno ai trent’anni. Di fronte, invece, un signore anziano. Le ragazze stanno discutendo di lavoro, sono laureate in Lettere, e dopo il dottorato si trovano poco e niente in mano, non lavorano o lavorano poco, quel poco che guadagnano lo spendono per l’affitto – e tra l’altro dividono l’appartamento (a Roma) con altre persone. Il signore annuisce più volte con la testa, è scoraggiato almeno quanto le ragazze, si trova infatti anche lui in una condizione particolare, è costretto, dice, a dare ancora la paghetta ai figli: trentenni anche loro, laureati, e insomma: non mi posso godere la pensione. Siamo sul Frecciarossa e indubbiamente stona tutto, i nostri discorsi sul pantano che ci blocca e la tecnologia che ci fa correre (ora abbiamo toccato i 298 all’ora). Sarà il clima di battaglia che si respira, lo scoramento, le contraddizioni, ma mi viene da pensare al principe Andrej, colpito nella battaglia di Austerlitz, cade, non vede niente, poi apre gli occhi: “Sopra di lui non c’era più nulla, se non il cielo: un cielo alto, non sereno, ma pure infinitamente alto, con nuvole grigie che vi strisciavano sopra dolcemente”. Non per avviare un discorso sulla ricerca della spiritualità: “Tutto è vuoto, tutto è inganno, fuori che questo cielo infinito”. Non per questo, ma sento il desiderio – in alcuni momenti soprattutto, quando siamo concentrati e giustamente su una particolare contingenza – di cambiare punto di vista.

 

Dunque: se la parola passasse ora al cielo cosa potremmo vedere dall’alto? Insomma il mondo nel suo insieme com’è? Per grandi numeri. Se partiamo appunto da Napoleone, intorno al 1800, quante persone, in percentuale, vivevano allora in estrema povertà? Quante persone faticavano per mangiare e avevano quindi poche possibilità di cambiare la propria vita. Nel 1800 la percentuale è alta, l’85 per cento – ci dicono i dati della World Bank’s Global Monitoring Report 2014/2015. Però poi arriva la rivoluzione industriale e siamo portati a immaginare che la percentuale scenda e di tanto, e invece, a grandi numeri, siamo ancora nel 1860 all’80 per cento. Nel 1900? il 70 per cento. Nel 1955? Arriviamo al 55 per cento. Nel 1970 si raggiunge il 50 per cento, cioè, metà della popolazione mondiale esce dalla povertà estrema. Solo nel 1990 si raggiunge il 35 per cento. Ora siamo attorno al 12 per cento e c’è un obiettivo che qualcuno giudica realistico, cioè arrivare a zero in quindici anni. Nel trend va considerando la crescita della popolazione, dal 1800 la popolazione è passata da uno a sette miliardi – più precisamente, nel 1924 due miliardi, nel 1960 tre miliardi, nel 1974 4 miliardi, nel 1987, 5 miliardi, 1999 6 miliardi, e a ottobre 2011, sette miliardi. Sempre dall’alto possiamo notare – considerando sia il tasso di povertà e quello della crescita demografica – che mai nella storia del pianeta ci sono state tante persone affamate come nel 1970: due miliardi di persone affamate e due miliardi di non affamati. Poi invece il trend migliora: vero ancora ottocento milioni di affamati (quasi come nel 1800) ma sei miliardi sono usciti dalla fame e dalle malattie.

 

Altri dati sono incoraggianti. Numero di figli per donna? Per esempio, in un paese come il Bangladesh? Se l’avessero chiesto a me, che sono cresciuto ascoltando anche il concerto per il Bangladesh di George Harrison – quindi conservo una certa immagine di quel paese – avrei detto: cinque figli per donna. E invece siamo a 2,5. Sono stati fatti molti passi avanti, il benessere è aumentato, le donne lavorano e fanno meno figli. Se ancora mi avessero chiesto i dati sull’alfabetizzazione femminile? Anche lì, sarei stato molto pessimista – ho in testa l’immagine dei talebani. E avrei sbagliato. A livello globale, durante gli 80 anni compresi fra il 1870 e il 1950, la percentuale mondiale della popolazione in grado di leggere e scrivere è cresciuta da un quarto a metà. Dal 1950 al 2000 è arrivata a quattro quinti. Dice Charles Kenny, nel suo Va già meglio (Bollati Boringhieri) “Il progresso è stato particolarmente incoraggiante per le donne. Fra il 1970 e il 2000 il rapporto medio globale tra l’alfabetizzazione femminile e quella maschile si è spostato dal 59 per cento all’80 per cento.

 

Tanto per dire, i tassi di alfabetizzazione nella regione sub-sahariana sono passati infatti dal 28 per cento al 61 per cento soltanto fra il 1970 e la fine del secolo. Uno dei fattori principali alla base della crescita del livello di alfabetizzazione globale è da ricercare in una più ampia diffusione dell’accesso all’istruzione”. Quindi, nella sostanza, a giudicare dalle mie risposte intuitive e dalla conoscenza che ritengo di avere su alcuni parametri, come mortalità infantile, mortalità delle donne per parto, io mi rendo conto di immaginare un mondo vecchio di quarant’anni, tanto che sono ancora convinto che l’occidente sia il padrone del pianeta. Sarà questo il problema che rende difficile trovare la soluzione? L’immagine del mondo è vecchia. Tutto sta cambiando. Ci sono 4 miliardi di asiatici e un miliardo di africani e la crescita delle popolazione – i due miliardi attesi – avverrà proprio lì, ancora un miliardo di asiatici e un miliardo di africani. Diciamo che dall’alto il mondo appare molto diverso, si vede il cambiamento, e forse tra le nuvole c’è ottimismo, e va bene, ma noi siamo pur sempre in questo treno e anche la dimensione ottimista se ben analizzata mostra i suoi tratti critici. Il fatto è che i vecchi parametri sono saltati e con i vecchi strumenti è difficile misurare la quantità d’acqua nel bicchiere e lanciarsi in un’interpretazione. Del resto ora che ho 50 anni posso dirlo: sono figlio della produzione e dell’occupazione manifatturiera. Attività di rilevo, nata due secoli fa e sviluppatasi grazie a tecnologia e invenzioni e modalità di organizzazione che hanno avuto origine in pochi paesi. La crescita della produzione ha generato grandi benefici economici, poi però in questa parte di mondo le cose sono cambiate. Giusto qualche dato.

 

L’occupazione manifatturiera nel 1980 raggiunse (in occidente) la sua vetta - dal 1900 al 1980 si è triplicata. Poi dal 1980 – avevo solo 14 anni – è cominciata a scendere. Gli occupati nel suddetto settore sono scesi da 71,5 milioni a 63,9 nel 2000 – avevo 34 anni. Poi il declino è stato più marcato, nel 2010 siamo a 51,1 milioni, ovvero si sono persi 12,8 milioni di posti di lavoro. Già allora il mondo stava cambiando e insomma quei parametri che usavamo per misurare e giudicare le scelte politiche, economiche (tanto welfare è stato realizzato allora), quelli stavano già saltando. Poi si sa l’economia è flessibile. Mentre in occidente sia la produzione manifatturiera sia i posti di lavoro totale diminuivano, aumentavano i posti di forza lavoro specializzati e ben retribuiti in alcuni settori come quello ingegneristico. Invece, nel mondo che ancora oggi chiamiamo (dimostrando ignoranza) in via di sviluppo, la produzione e l’occupazione nella manifattura aumentavano a ritmo sostenuto: tra il 2000 e il 2010 l’occupazione in queste aree è aumentata del 29,4 per cento. Sessantatré milioni di posti di lavoro in più – di cui il 35 per cento, cioè la metà – sono in Cina. E ora che andiamo verso il 2050, nove miliardi di persone, un miliardo nelle Americhe, uno in Europa, due in Africa, 5 in Asia. Dall’alto cosa si può intravedere? Peter Marsh, in “Fabbricare il futuro, una nuova rivoluzione industriale” (Codice) vede, per esempio, un terreno di gioco livellato, questo fa sì che che sia una base più equa per un nuovo sviluppo globale. Tuttavia: “La maggior parte dei produttori, sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri, dovrà necessariamente sviluppare una strategia internazionale e le aziende dovranno adottare un approccio globale, in termini di reperimento di fornitori, clienti e collaboratori”. Ciò significa che i processi produttivi saranno caratterizzati da un una miscela di processi manifatturieri, si andrà insomma verso una produzione ibridata, ciò vuol dire che la fabbricazione di beni nei diversi siti produttivi diventerà una parte sempre meno importante dell’attività di produzione: altri aspetti passeranno in primo piano. In fondo la dinamica è percepibile già oggi.

 

Se produco semplici matite e voglio restare sul mercato e affrontare la concorrenza digitale dovrò occuparmi di molti aspetti, dal locale al globale: dove prendo la grafite? La Faber Castell per esempio prende la grafite da miniere in Cina, Sri Lanka e Zimbabwe. Poi però deve miscelare la grafite con piccole quantità di un certo tipo di argilla che garantisce elasticità e dunque “scrivibilità”. E per questo si rivolge alle miniere di Klingerberger. Ma non finisce qui: il legno? Ci vuole quello giusto. Per le matite normali la Faber Castell prende i pini piantati in 100 chilometri quadrati nello stato di Minas Gerais, in Brasile. Per quelle di alta qualità, ci vuole un un’essenza pregiata di cedro che cresce in California e Oregon e viene spedita via nave prima a Tianjin, in Cina, dove viene lavorata e poi spedita a Stein. E non basta, la mattina bisogna venderla in tutto il mondo, e ci vuole un racconto, una narrazione della matita e questi aspetti – insieme alla capacità di valutare la qualità di una particolare innovazione, di sviluppare o assimilare una tecnologia – tutto questo nel futuro diventerà sempre più importante, mica solo per le matite. Siccome la base di partenza pare essere più livellata, può darsi che in tanti parteciperanno al processo, forse, chissà anche i laureati in Lettere.

 

Torniamo al nostro treno, allo scompartimento, e sì, i problemi ci sono, contingenti e pure con nuova grana. Se dobbiamo affrontarli ci vogliano altri strumenti: idee e creatività, apertura mentale per collaborare con le altre persone, la voglia di reimparare tarando nuovamente la nostra cassetta degli attrezzi o almeno impegnarsi a capire il presente. Poi certo, ci vuole la passione, e insomma, qui si intende quella certa propensione a cambiare punto di vista. A volte, dall’alto la visione di insieme è necessaria, ci predispone a un obiettivo più ampio e lungimirante e meno legato al particolare: non è facile, si capisce, anche perché in questo scompartimento si soffre davvero.

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