Nanni Moretti nel film “Bianca” del 1984. Michele Apicella, il personaggio protagonista del film, professore di matematica specializzato in osservazione dei comportamenti altrui

Complesso di stupidità

Antonio Pascale
Noi antropologi di provincia, con la tessera da progressisti in tasca, che negli anni Ottanta guardavamo i cafoni ridendo. Ecco perché abbiamo sbagliato tutto

Sì, negli anni ho sviluppato un complesso di superiorità, anche perché ero (e sono) di sinistra. Eppure, dai tempi della mia prima tessera, Democrazia Proletaria, passando per tutte le varianti del Pci, sono successe molte cose che avrebbero dovuto mettermi all’erta. Ma strada facendo non c’ho fatto caso, quindi, posso solo rivedere ex post quanto è accaduto. Per esempio il primo campanello d’allarme suonò nel 1982. All’epoca guardavo su un Grundig di pochi pollici, in bianco e nero, “Blitz” di Gianni Minà. Ricordo una puntata dedicata alla nuova cultura napoletana, musica e cinema. C’era anche Troisi – noi ragazzi mandavamo a memoria le sue battute – e all’improvviso arriva Benigni – e noi ragazzi amavamo molto anche Benigni. Era giovane, scapigliato, stralunato, pieno di energia, divertentissimo e infatti non appena entra io comincio a ridere. Poi chiede se siamo in diretta e se a “Blitz” si può dir tutto, perché lui è stato anche a “Domenica in” e non gli hanno fatto dir nulla, poi aggiunge: “Domenica in” è una trasmissione per sottosviluppati. Il regista inquadra Troisi, sembra indispettito, è un attimo, poi Benigni si siede e Troisi comincia una gag – credo tutta improvvisata, un vero capolavoro di comicità e mimica del corpo. Dice a Benigni che così passa un guaio, come è già successo con il Papa (il famoso Wojtylaccio al Festival di San Remo), passa un guaio perché può trovare un carabiniere stanco che appunto sta guardando sulla poltrona “Domenica in” – e qui vale la pena rivedere la scenetta su YouTube – e si offende e magari decide di denunciarlo, perché, insomma, si sta rilassando in poltrona e perché mai dovrebbe essere apostrofato come sottosviluppato? La gag è divertentissima e Benigni regge bene, ma sembra una cosa nata e finita lì, e invece, forse, era un’indicazione che avrei dovuto cogliere: il fatto è che noi della sinistra anni Ottanta già ci sentivamo sovrasviluppati. Forse per le letture più colte, forse perché in tanti come me venivano dal basso e ambivano a prendere la tessera di un club speciale. Sì, lo pensavo: alcune persone erano sottosviluppate. I miei zii contadini per esempio, incredibile ma all’inizio degli anni Ottanta avevano ancora gli animali in casa, la stalla in camera da letto, diceva mio padre. Quando insieme alle mie cugine, come me più acculturate, andavamo a trovare i miei zii, ci facevamo un sacco di risate, storpiavano le parole, vestivano di nero e marrone e c’era sempre un tanfo in casa loro. L’unico che non rideva era mio padre – all’epoca dirigeva una settore dell’ispettorato agrario a Caserta – anzi spesso si innervosiva, batteva i pugni sul tavolo e diceva: cambiate piani colturali, togliete ’sta vigna vecchia, comprate macchine agricole migliori, ci sono i contributi a fondo perduto, vi faccio io la pratica. Niente, pensavamo noi, niente da fare: sono dei sottosviluppati. In quegli anni noi ragazzi di sinistra, tra una manifestazione e un volantinaggio, guardavamo con un certo sospetto alcuni commercianti della via Appia, nel tratto, Capua-Caserta – con l’aria di chi assiste in diretta alla mutazione antropologica e richiama tutti alla guerra culturale.

 

C’erano un sacco di negozi aperti da poco, mobilifici (la celebre Concetta Mobili), bagni e piastrelle, qualcuno vendeva oggetti sacri e statue di padre Pio insieme ai nani da giardino: dài, da ridere. E noi li studiavamo, eccome. Eravamo una strana razza di etnologi e molti anni prima della famosa rubrica di Cuore, Botteghe Oscure (le insegne più assurde) avevamo già il nostro personale catalogo: un’insegna infatti ci colpiva più delle altre, il principe del bagno, sì, un commerciante che vendeva igienici. Comunque, mentre noi esaminavamo e studiavamo i mutanti,  mio padre un giorno sì e l’altro no si metteva nelle orecchie dei miei zii contadini e alla fine i rimproveri di mio padre ebbero effetto. Finalmente chiesero dei prestiti e l’azienda andò meglio, tanto che riuscirono a togliersi la stalla dalla camera da letto e costruirne una con tutti i parametri zootecnici moderni. Con i soldi guadagnati i miei zii per prima cosa si rifecero il bagno e la cucina, e sapete da chi andarono? Dal principe del bagno. Ma come? dissi una sera a mio zio, quello è un cafone. Non dimenticherò mai la sua espressione, come se non stessimo parlando della stessa persona: ma quando mai, è un signore, c’ha fatto lo sconto, una bravissima persona. Chissà, ero troppo impegnato a ridere dei sottosviluppati che non appartenevano al mio club per accorgermi che l’Italia in quegli anni – negli anni Ottanta appunto – stava cambiando parecchio, e i grafici economici illustrano bene il trend: siamo davvero diventati tutti più ricchi nel decennio e tanti si sono rifatti il bagno e la cucina. Però, strano la mutazione culturale riguardava sempre i consumi degli altri, i nostri no. Pasolini per esempio poteva, anni addietro, con poetica contraddizione condannare la mutazione antropologica e comprare bei vestiti, come racconta a Repubblica Graziella Chiarcossi. “Sì, amava circondarsi di cose belle. Si vestiva anche con grande accuratezza: giubbetti di pelle, giacche con i revers di velluto, calcolate geometrie di righine. Aveva un debole per le scarpe, che portava con qualche centimetro di tacco per essere più alto. Frequentava un bellissimo negozio di piazza di Spagna, Ottantaquattro, mentre per noi comprava abiti raffinati da Ritz Saddler”. Ai poeti si concede tutto, la vanità soprattutto,  e tuttavia, parlando della mutazione antropologica degli altri, è significativo notare che i primi fornitori pubblicitari di Canale 5 fossero proprio i mobilieri gli Aiazzone. Per varie ragioni, la Rai aveva i grandi gruppi industriali, mentre Canale 5 piccoli industriali. Berlusconi avrà intuito prima di noi antropologi di provincia che l’Italia stava cambiando e reclamava altri consumi (oltre a quelli di lusso) e conveniva assecondarli, incentivarli, e non prenderli in giro.

 

[**Video_box_2**]Naturalmente questa personale autoaccusa nasconde un problema. Dichiarare che ora non sono snob e non mi vanno giù quelli che parlano male di “Domenica in” è una raffinata e furba forma di snobismo, quindi rischio di mettere su un circolo vizioso. Per uscire dal vicolo cieco e rendere l’autocritica sensata e propositiva è interessante leggere cosa in proposito dice lo psicologo Jonathan Haidt, nel suo libro “Menti Tribali”, perché le bravi persone si dividono su politica e religione (codice edizione). Haidt è un innatista. Dicesi innatismo qualcosa di organizzato prima dell’esperienza, come la bozza di un libro che viene rivista a mano a mano che una persona cresce. Valori e regole specifiche variano da una cultura all’altra. Tuttavia se vogliamo capire cosa c’è scritto nella prima bozza universale della natura umana, allora bisogna fare i conti con cinque principi, un lascito dell’evoluzione. A partire da questi Haidt elabora nella seconda parte la coinvolgente ipotesi che dà il titolo al libro: la morale crea sì vincoli di appartenenza ma acceca, abbiamo ancora menti tribali. I cinque princìpi dunque. Principio protezione/danno. Sviluppato in risposta alla sfida di offrire protezione ai bambini, ci rende sensibili ai segnali di sofferenza del prossimo. Principio di correttezza/inganno, evolutosi in risposta alla sfida di raccogliere i frutti della collaborazione senza essere sfruttati, ci spinge a evitare o punire i truffatori. Principio di lealtà/tradimento, ci fa allontanare chi tradisce il gruppo cui apparteniamo. Principio di autorità/sovversione, ci rende sensibili ai segnali relativi allo status o al rango sociale. E infine principio di sacralità/degradazione, cosa ci appartiene (dunque è spesso irrazionalmente investito di sacralità) cosa dobbiamo allontanare (perché ci degrada). Bene, la bozza è questa, e nelle verifiche empiriche e nei simpatici esprimenti narrativi che Haidt propone si scopre che i progressisti hanno una morale che fa affidamento solo sui principi protezione/danno e correttezza/inganno, mentre la destra attiva di meno i primi due, e più i restanti tre. Dunque, i conservatori nelle campagne elettorali hanno più modi per stabilire un contatto con gli elettori? Purtroppo (per me di sinistra) sì. Soluzione? Io credo che la narrativa, o meglio la rigorosa descrizione dell’altro da sé, sia sempre proficua. A questo proposito possiamo chiederci: davvero, da destra e sinistra, abbiamo cercato di descrivere il problema che ci preoccupava rispettando l’avversario? Più semplicemente, da destra e da sinistra, in questi ultimi anni non abbiamo fatto altro che usare la tecnica del riflettore, illuminare solo ciò che nell’avversario è ridicolo e grottesco, così da evitare quelle perniciose domande che possono inficiare le nostre tesi. La morale serve per creare vincoli sì, ma acceca. Siamo o non siamo accecati dalle nostre battaglie? Chiaro non dobbiamo andare d’accordo per forza con i principi del bagno né loro con noi, ma siccome siamo in democrazia, visto che anche nell’altro club ci sono brave persone, quello che è importante è essere in disaccordo in maniera costruttiva.