L. V. Beethoven

La Nona è solo l'inizio. Perché non possiamo non ascoltare Beethoven oggi

Mario Leone
Questa “cattedrale” ha inaugurato la stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma. In verità si è aperto un ciclo più ampio perché nell’arco di un mese (dal tre ottobre al tre novembre) l’Auditorium dell’Urbe vedrà l’esecuzione integrale delle Sinfonie beethoveniane accostate a lavori di coevi suoi e nostri.

Per cogliere sino in fondo le “urgenze” umane e compositive della Nona Sinfonia di L. V. Beethoven dobbiamo partire dalle parole di Benedetto XVI. In uno dei tanti concerti che gli venivano offerti ebbe a dire: “La solitudine umana silenziosa, però, aveva insegnato a Beethoven un modo nuovo d’ascolto che si spingeva ben oltre la semplice capacità di sperimentare il suono delle note che si leggono o si scrivono”. 

 

È il 1815 e su uno dei tanti taccuini che Beethoven utilizza per annotare o interloquire con le persone compaiono le prime tre battute del futuro Scherzo della Nona Sinfonia. “Le idee giungono, come un bel giorno, a Dio piacendo” si legge sui Quaderni di conversazione. Questa epifania dell’idea musicale, da bloccare subito e trattenere prima che svanisca nell’oblio, sarà il tratto saliente del metodo beethoveniano. Da quel 1815 più nulla. Soltanto nel 1822 fa capolino il tema dell’Inno alla gioia. Un Compositore che sembra quasi essere distratto eppure alle prese con una vena creativa incessante e una drammatica posizione umana. Sono anni duri. Beethoven è ormai sordo, staccato dalla società, in lotta con un orecchio ormai silente che, come afferma nel testamento di Heiligenstadt molti anni prima, dovrebbe essere il suo senso più sviluppato. Da un lato lo sconforto per una condizione incomprensibile, dall’altro il cuore dell’artista e dell’uomo, continuamente alla ricerca della felicità e della Verità. Lo scriverà egli stesso qualche mese dopo la composizione della Settima Sinfonia: “Se mi sarà concesso sopravvivere ancora per qualche anno, renderò grazie anche per questo come per ogni altro bene e dolore a Colui che tutto abbraccia, a Colui che è l’Altissimo”.

 

La Nona sinfonia è il punto più alto di questa ricerca ma anche di una possibile risposta. Una gestazione infinita, una serie di appunti. Una ricerca nella vita testimoniata dalla musica. Il tentativo di allargare gli orizzonti umani e musicali. La forza carismatica del Compositore di Bonn monta in quegli anni, dal 1815 sino al 1824. Non si dedica solo alla Nona Sinfonia, ma anche alla Missa Solemnis, le ultime Sonate per pianoforte (op. 109, 110, 111 ndr) e le Variazioni Diabelli. Sarà lo stesso Beethoven a spiegarlo: “Io vivo completamente nella mia musica; e si può dire che non ho ancora finito una composizione e già ne ho cominciato un’altra. Con il ritmo a cui attualmente compongo, spesso produco tre o quattro lavori contemporaneamente”. Eppure nell’aria s’intuisce qualcosa di nuovo.  “Si sparge la voce che il sordo solitario cerca qualcosa di diverso”. Beethoven è alla ricerca di qualcosa di nuovo. Non solo un effetto speciale per attrarre spettatori e racimolare quanti più soldi possibili, ma un modo nuovo di esprimere cose che le vecchie vie non avrebbero potuto fare. Beethoven studia i modi antichi, i teorici rinascimentali, in un periodo frenetico fatto di malattie, depressioni e momenti di veemente ispirazione.

 

Tutto questo non rallenta il lavoro. Quanto più le condizioni mentali e fisiche peggiorano, tanto più l’estro e la capacità lavorativa riprendono vigorose. È la carta il primo testimone di un così grande subbuglio dell’uomo. Se si guardano le prime due pagine autografe degli abbozzi della Nona, si notano segni nervosi, cancellature, una scrittura molto fitta in fronte - retro. “Cambio molto, scarto e ritento sempre di nuovo finché non sono soddisfatto, poi comincio ad elaborare nella mia testa, allargo, restringo, spingo verso l’acuto e verso il grave e, poiché so cosa voglio, la concezione di fondo non mi abbandona mai”. Beethoven si lancia in questo nuovo tentativo che cambierà la musica. Chiede tempo all’editore Schott, perché vuole inoltrare una copia al re Federico Guglielmo III di Prussia. Non dimenticherà mai che l’appoggio di un potente avrebbe aiutato la sua missione. Eppure non fu mai succube del potere e non vendette mai le sue idee per un facile successo. Come chiarisce, in esclusiva per Il Foglio, il musicologo Nicola Scardicchio: “È il Beethoven che dice che “la Verità non si inchina davanti al trono”; che strappa la dedica dell’Eroica (la III Sinfonia ndr) a Napoleone quando si volle incoronare imperatore. Quel Napoleone, che per Beethoven è icona dei più alti valori civili e sociali, che cede alla lusinga del potere; è il Beethoven che parlando della sua solitudine di uomo dice che se avesse avuto una vita normale “cosa ne sarebbe stato dell’Arte?””.

 

In quegli anni il Compositore è guardato con sospetto non solo per un vistoso peggioramento delle condizioni fisiche, ma anche perché la sua musica iniziava a essere di difficile decifrazione: passaggi strumentali di non semplice esecuzione, utilizzo ardito di fiati e timpani, asperità corali al limite delle possibilità fisiologiche. I primi interpreti della Nona sono i giudici più spietati: il soprano Henriette Sontag afferma di non aver cantato mai una cosa così difficile. Il contralto Caroline Unger rimprovera a Beethoven di non saper trattare le parti corali e poi gli indica una nota troppo acuta. Beethoven replica: “Imparala! Vedrai che verrà, la nota!” Sono tanti gli episodi curiosi e non, sino all’esecuzione della Sinfonia da lui diretta. Litigi con gli orchestrali, strani strumenti apposti alle orecchie per provare a sentire più possibile durante le prove, ritardi nella consegna delle parti per orchestra.

 

La Nona è un’opera monumentale che sembra combinare insieme più generi, reinventandoli allo stesso tempo. Così Scott Burnham Professore di Storia della Musica all’Università di Princeton: “La Nona è il più grande fenomeno della musica occidentale per il suo inesauribile impatto culturale. […] ha sempre costituito storia a sé. È presto divenuta il versante della montagna dal quale avrebbero fatto eco tutte le successive sinfonie germaniche”. Una montagna il cui primo tratto distintivo è la reinvenzione della “forma”. "Tanto peggio per la forma!". Risuona la celebre affermazione di Hector Berlioz proprio in risposta a chi obietta che il grande di Bonn, nella sua ultima sinfonia, avesse infranto le leggi della forma. Il senso di indipendenza da qualsiasi strettoia accademica in nome di una totale libertà ideale e creativa si addice perfettamente a una composizione che termina inusitatamente con un inno cantato da soli e coro sui versi dell'Inno alla Gioia di F. Schiller. In origine si intitolava “Inno alla Libertà”. Censura volle che venissero realizzate, dal titolo stesso, le variazioni testuali, ma il contesto esplicitamente si riferisce all'asserto originario. Proprio per questo Leonard Bernstein, nel 1989 in occasione dell’abbattimento del muro di Berlino, decide di far cantare la parola ‘Freiheit-Libertà’ invece di ‘Freude-Gioia’ nel corso dell’esecuzione della Nona: a testimonianza del valore etico che assumeva in modo significativo la parola libertà in un giorno tanto speciale, con il fervido invito all’abbracciarsi delle moltitudini umane.

 

Una cattedrale di suoni che riempie tempo e spazio con l’imponenza della sua perfezione e bellezza. Un’Opera di fronte alla quale l’unico sentimento impossibile è l’indifferenza. Ancora Scardicchio: “Come musicista non posso non avere un concreto complesso di inferiorità nei confronti del Musicista. Come uomo provo sempre di più la venerazione per l’Uomo che visse con una dignità, una forza interiore titanica e con una potenza di pensiero tra le massime espressioni della storia umana. Era un vero alchimista capace di trasformare il piombo della materia inerte dei grumi sonori che sono le cellule tematiche, nell’oro incorruttibile e immortale di espressioni attraverso i suoni di quanto di più nobile sia consentito intuire”.

 

Questa “cattedrale” ha inaugurato la stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia. In verità si è aperto un ciclo più ampio perché nell’arco di un mese (dal tre ottobre al tre novembre) l’Auditorium dell’Urbe vedrà l’esecuzione integrale delle Sinfonie beethoveniane accostate a lavori di coevi  suoi e nostri (vi saranno tre prime assolute di opere commissionate a compositori viventi).

 

Il tratto caratteristico dell’interpretazione di Pappano è senza ombra di dubbio la veemenza. La ricerca della grandiosità fonica, unita a tempi sempre molto serrati, cattura l’ascoltatore a discapito, in alcuni passaggi, della “pulizia” delle linee musicali e di alcune parti interne che si perdono nella concitazione generale. Fresco di nomina dalla London Evening Standard come persona tra le più autorevoli di Londra, Sir Tony si conferma raro esempio di direttore dal tratto inconfondibile, con chiare e personali idee musicali e comunicatore nato. Può non piacere il gesto, qualche smorfia forse è di troppo, ma Santa Cecilia, da anni, non ospitava un’esecuzione della Nona di questo livello.

 

Buona la prova dei solisti, ma soprattutto superlativo il coro preparato da Ciro Visco: puntale nella pronuncia tedesca, mai sopraffatto dall’orchestra e preciso nell’esecuzione di una non semplice partitura.

 

[**Video_box_2**]In conclusione vorremo spendere qualche parola sulla composizione “Bread, Water and Salt” di Luca Francesconi, prima delle “nuove opere” di questo ciclo Beethoven. Il pubblico in sala ha accolto con “educata compostezza” l’opera, che presenta spunti musicali e ideali molto interessanti. Un lavoro, quello di Francesconi, tutto costruito sul timbro, che ricorda per alcuni aspetti la Sinfonia n. 3 “Kaddish” di Leonard Bernstein e denota l’abilità compositiva del Compositore milanese. Grande merito a Pappano che propone la “musica nuova” accostandola alla musica del “passato” con il solo fine di scoprire e riscoprire ciò che è bello e poter sperimentare quanto Beethoven ci sia contemporaneo.

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