Un particolare della copertina di un’edizione Garzanti de “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile

Positivamente nonna

Simonetta Sciandivasci
Anna Olga ha evitato di essere indispensabile e saggia, preferiva terrorizzarmi con storie di streghe e incantesimi. Ma mi ha visto diventare adulta senza l’ansia del futuro. Mia nonna ha iniziato a vaticinare la fine dei suoi giorni a cinquant’anni. A settembre ne compirà ottantadue

L’ho fatta positivamente per te”. Me lo dice tutte le volte che vado a trovarla e, prima ancora di abbracciarmi, mi porge la sciarpa che ha lavorato ai ferri nel tempo che è trascorso dall’ultima volta che ci siamo viste. A mia nonna Anna Olga (Nina, per nonno Ciccio, suo marito – non so dire quanto mi manchi quel refolo di romanzo russo che soffiava nel lungo corridoio di casa, quando la chiamava così), la parola “apposta” non entra in testa, così come a mia nonna Maria non è mai entrato in testa Flavio, il nome del marito della sua seconda figlia, né Mirko, il fratello di lui – e infatti, per tutta la vita, li ha chiamati Flauto e Microbo. Non voleva offenderli, semplicemente avevano nomi troppo stranieri che non era abituata a sentire e tanto mia nonna Anna, quanto mia nonna Maria non si sono mai abituate ad alcunché: hanno sempre fatto in modo che tutto si adattasse e abituasse a loro. Di positivo, cioè vitalistico, entusiastico, ottimista, mia nonna Anna Olga non ha mai avuto nulla: prima che mio nonno morisse, si lamentava perché sentiva che sarebbe morta presto e perché “della rosa del nostro amore, sono rimaste solo le spine” e dopo perché, ancora, sentiva che sarebbe morta presto e in più aveva perso un uomo che “per me ha fatto tutto, quanto bene mi ha voluto, quanto mi ha rispettata e amata, ogni giorno, fino all’ultimo”. Mia nonna Anna Olga ha iniziato a vaticinare la fine dei suoi giorni a ridosso dei cinquant’anni. A settembre ne compirà ottantadue. Non ha mai smesso di mangiare cannoli (li compriamo positivamente per lei, in tutte le occasioni importanti, quindi ogni domenica, se è nostra ospite).

 

Di positivo in senso di vitalistico, entusiastico, ottimista, né ha qualcosa, né ha mai fatto qualcosa, a parte mangiare cannoli. Il rossetto l’ha messo, su insistenza delle figlie, a un paio di matrimoni e battesimi. Dal parrucchiere ci è sempre andata con l’espressione da pesce d’acquario. Le boccette di smalto sono sparite dal suo bagno dopo che Giovanna, la sua ultimogenita, si è sposata. La tv l’ha sempre fatta piangere. Il cinema, non ne parliamo. Le messe e le cerimonie in generale, peggio. Non ha mai ballato. Ha cantato una volta, persino sorridendo, quando i miei genitori si sono sposati in chiesa, trentatré anni dopo il loro matrimonio in comune – cui nessuno dei miei nonni partecipò perché era in comune (il primo matrimonio civile della storia di Ferrandina, provincia di Matera: persino il sindaco era in imbarazzo) e mio padre indossava i blue jeans (anche per questo il sindaco era in imbarazzo). Tuttavia, pure in quell’occasione, mia nonna ha cantato e sorriso per assolvere un obbligo, uno dei suoi “positivamente”: non per me, ma per sua figlia, mia madre, finalmente diventata cattolica osservante tanto da riuscire a trascinare, davanti a un prete, un socialista scientista agnostico integralista come mio padre. Lo stesso uomo che, secondo Nina, ha tentato di boicottare la mia nascita, in occasione della quale lei ha pianto e temuto, reiterando la stazione di allerta nella quale o nei dintorni della quale la sua vita emotiva si è dipanata e continua a dipanarsi. Era convinta che mio padre volesse uccidermi, perché non pagava l’obolo scaramantico in nero che, dalle nostre parti, si usava versare all’ostetrica, per assicurare che il parto filasse liscio. Nei dieci giorni (di ritardo) che ho impiegato a venire al mondo, nella sala d’attesa dell’ospedale di Tricarico (Matera), è andato in scena, in loop, questo copione: nonna Maria che urlava a suo figlio, mio padre, “stai uccidendo tua figlia”, nonna Anna Olga che piangeva e mio padre che, impassibile, subiva, maledicendo, tra sé e sé, sud, magia, Democrazia cristiana, antropologia culturale, suffragismo, Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Albino Pierro. Le nonne non si capacitavano di come si potesse decidere, proprio in un momento così solenne, di mandare all’aria un metodo comprovato che aveva fatto nascere milioni di persone, mentre lui sognava un piano quinquennale di illuminismo coatto, che emancipasse per sempre il meridione italiano dal sincretismo fatale in cui paganesimo, esse est percipi, provvidenza cristiana, esoterismo, casualismo e finalismo non producevano contraddizioni, ma condotte esistenziali. Quell’obolo, mio padre, non l’ha mai sganciato e io sono nata comunque, con gli occhi gonfi e la faccia infuocata, talmente sana che non c’è stato nemmeno bisogno dell’incubatrice. Nonostante questo, le credenze delle mie nonne non hanno vacillato neppure un istante: per loro, si è trattato di mera fortuna. Per loro, anche di lì a venire, illuminismo sarebbe rimasto un vocabolo molto simile a illusionismo e da quest’ultimo rimpiazzabile, come avviene, nel lessico di Nina, per apposta e positivamente. La soteriologia civile di mio padre non poteva che rimanere una vana ambizione e dev’essere per questo che lui non smette di rimettere a nonna Anna Olga un debito, anche se credo sia più una posa che la spia di un risentimento: dopotutto, è sempre lui che ricorda di comprarle i cannoli. Dice “altrimenti resta a digiuno” ed è vero: lei, la sola anziana delle tante che conosco a non soffrire di diabete, mangia quasi solo dolci. Assaggia la pasta solo per complimentarsi con chi l’ha cucinata, al secondo si dichiara sazia, poi si concede un sedicesimo di un frutto e solo all’arrivo del dolce smette di millantare indisposizioni e comincia a nutrirsi. La sua borsa è sempre piena di caramelle al caffè, anche se non beve caffè: dice di comprarle positivamente per me e le mie cugine, avendo ormai rinunciato a cucinare. Ho sempre immaginato che, quando era solo una mamma, propinasse pasti a base di stuzzichini, come Cher in “Sirene”, ma so che c’è stato un tempo in cui ai fornelli ci si metteva, se pure con pessimi risultati. Le è sempre venuta bene solo la carne alla pizzaiola, che chiamava sveltina, ignara come è sempre stata dello sconcio doppiosenso – non ho mai avuto cuore di svelarglielo: le volte in cui dice “piedi”, aggiunge “con rispetto parlando”: se sapesse che sveltina è una parola porno, resterebbe stecchita.

 

Nonna Anna Olga è stata ed è il contrario della nonna per antonomasia, rassicurante, calma, accorta, ponderata, cuoca esemplare, coraggiosa, insomma una mamma al quadrato (libera, però, dall’ossessione per la carie, la congestione e il decesso accidentale). E’ stata ed è, invece, ansiogena, permalosa, irrazionale, imbranata, lamentosa, insomma una figlia adolescente al quadrato, anche se mai malmostosa. Soprattutto, nonna Anna Olga non è mai stata autorevole (il fatto che non sapesse cucinare non era certo il frutto di uno smarcamento veterofemminsta da uno stereotipo: semplicemente, avendo avuto una madre e una sorella molto più grande di lei, non ha avuto l’occasione di imparare a farlo) e da me ho sempre ottenuto quello che voleva senza instillarmi il dovere dell’obbedienza ma terrorizzandomi. Esempi. Se mai mi fossi affacciata al balcone, sarei morta spiaccicata: l’invisibile mostro Manilunghe avrebbe allungato le braccia e mi avrebbe spinta giù, fino al centro della terra. Se non l’avessi piantata col ciuccio, la Morta Parlante (la sua ignara dirimpettaia, che poi morì davvero e allora la tramutammo nella Morta Parlante Morta Due Volte) lo avrebbe immerso in un veleno refrattario al bacio di qualsiasi principe ed io sarei precipitata inesorabilmente nel sonno eterno. Guai a fare smorfie: sarebbe immediatamente passato un angelo, avrebbe esclamato “Amen!” e quella smorfia mi sarebbe rimasta impressa sulla faccia per sempre, tipo paresi facciale.

 

Questo apparato legislativo, però, non lo aveva emanato positivamente per me: lo aveva ereditato e trasmesso, come un aedo. In fondo, mia nonna non dettava leggi: di Manilunghe, della Morta Parlante, dell’Angelo aveva paura anche lei. Non l’ho mai vista affacciarsi a un balcone o a una finestra, non l’ho mai vista fare smorfie, mentre io, adesso, non soffro nemmeno di vertigini. Della morte ho paura, perché sono viva, ma non temo la Morta Parlante. A dispetto di quello che credevano i miei genitori, nonna Anna Olga non mi ha impresso alcuna fobia, perché lei non conosceva la psicologia e la psicanalisi, ma le favole sì e per me la Morta Parlante, l’Angelo e Manilunghe non erano null’altro che favole alle quali ho smesso di credere perché un giorno la sveglia suona così forte e si ha così tanta fretta che ci si dimentica di controllare se sotto al letto ci sia qualche assassino. E così si diventa adulti.

 

Mia nonna sapeva che quel giorno sarebbe arrivato e si fidava del fatto che sarei diventata una donna adulta raziocinante molto più di quanto non abbia fatto mia madre, affossata com’era e com’è dal futuro. Nonna Anna Olga, invece, al futuro non ha mai pensato, impegnata com’era a sentirsi la morte addosso. La mia infanzia è stata popolata di terrori inconsulti che Nina ha saputo trasformare in amichetti di gioco miei e suoi. Non eravamo mai sole, in casa: quando nonno Ciccio usciva per andare al circolo, entravano Manilunghe, la Morta Parlante, l’Angelo e pure tutte le streghe, gli spiritelli, gli orchi e gli incantesimi de “Lo cunto de li cunti” – quando, a vent’anni, scoprii Basile, mi si spezzò il cuore: credevo che quelle storie nonna Anna Olga le avesse inventate o raccolte e riadattate positivamente per me e invece mi sbagliavo (tuttavia, nemmeno quello fu un trauma). Non eravamo mai sole anche perché c’erano i fantasmi e lei non ometteva mai di dirlo. C’era il povero Pasqualino, unico maschio nato nella famiglia di nonna Anna Olga e morto a sei anni cadendo da un carretto – io e le mie cugine diciamo che è stato il fatto di essere maschio a ucciderlo, ma lei si arrabbia; la figlia di Michelina, la vicina di casa, di cui conservavamo una treccia e che una notte d’estate era andata in sogno a mia nonna per chiederle di dire a Michelina che lei stava benissimo dov’era, insieme ad altri ex vivi e quando nonna eseguì, Michelina volle una prova empirica e allora una sedia del soggiorno si mosse (e nonostante questo, io non ho paura né delle sedie, né delle trecce, né tantomeno delle stelle Michelin); nonna Simonetta, la mia bisnonna, della quale porto il nome perché mia madre sperava che io nascessi con i capelli come i suoi, rossi e ricci (invece sono nata banalmente liscia e castana) e perché fu lei a crescerla per un po’, fino a quando nonna Anna Olga non si abituò a gestire tre figlie femmine. Posso giurare che Almodóvar non ha mai passato nemmeno un Natale a casa mia, prima di girare “Volver”.

 

[**Video_box_2**]Oltre alle sciarpe, nonna Anna Olga ha fatto positivamente per me molte altre cose: ha evitato di dirmi che sarei bruciata all’inferno, quando ha capito che convivevo; mi ha insegnato a leggere l’orologio, a tagliarmi le unghie, ad allacciarmi le scarpe, a disintossicarmi dal ciuccio; ha accettato di ripetermi all’infinito la storia della bambolina che morde il culo del principe fino a quando lui non sposa la sua padroncina e quella della racchia che riesce a farsi sposare da un ricco mercante mostrandogli solo un dito e quella di mia zia medium che di notte veniva aggredita dai fantasmi che le urlavano “lasciaci stare!” durante la guerra, nonostante gli sbuffi cinici di mio padre e quelli esautorati di mia madre. Positivamente per me, nonna Anna Olga ha evitato di essere indispensabile e saggia, di segnarmi la vita con il suo esempio o con i suoi insegnamenti – dubito che sia stata una scelta volontaria, ma chissenefrega, a me interessano i risultati, mica le intenzioni – e così ha fatto in modo che io mi sentissi inedita e che la sola cosa che mi sentissi in dovere di tramandare della mia famiglia fosse la tenerezza, non la legge morale.

 

La prima volta che nonna Anna Olga mi lasciò sola in casa fu per andare a un funerale. Le chiesi cosa fosse un funerale e la risposta mi condusse anche a domandarle cosa volesse dire morire. Lei rispose: “è quando si ferma il cuore”. Ancora adesso, non riesco a posare la testa sul petto di nessuno: sentire il battito cardiaco mi attanaglia in qualcosa che assomiglia alla crisi di panico. La sola spiegazione utile di mia nonna è stata anche la sola a lasciarmi dentro un insanabile trauma.

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