Giuseppe Pellizza da Volpedo, “Il quarto stato” (1901)

I miei nonni comunisti

Stefano Di Michele

Braccianti poveri arrivati dall’Abruzzo, lavoratori con una fede semplice e l’Unità in tasca, sono stati i veri custodi dei miei primi dolori e dei primi stupori. Nonno Stefano era grande, massiccio, vociante. Era comunista. Dai suoi racconti ebbi la prima lezione di pratica politica

Due nonni vivevano al piano di sotto; due al piano di sopra. I nonni di sotto erano quelli materni, Anna e Davide; i nonni di sopra quelli paterni, Maria e Stefano. Noi – io, mio fratello, la mia mamma, il mio papà – vivevamo con i nonni paterni. Ma c’era solo una rampa di scale, un nulla, tra un mondo e l’altro. Tutti braccianti immigrati dall’Abruzzo all’inizio degli anni Sessanta – nonni e genitori, e noi bambini: pure io minuscolo immigrato di tre anni. “Che vergogna, ma che penserà la gente: che a casa non abbiamo neanche una testa d’aglio!”, si lamentava nonno Stefano quando la mamma tornava dalla spesa – per anni faticò ad accettare l’idea che servissero soldi per comprare cose che prima tentava di strappare alla terra (ben poche cose, da disperati: il padrone si prendeva la metà del tutto, senza mai alzare la zappa). Poi, il giorno che arrivava la pensione, solennemente si avviava verso la frutteria e comprava una banana a me e una a mio fratello: concessione esotica, preziosa – ché mica poteva malignare la gente di città, nessuno poteva pensare che a San Rustico di Basciano, provincia di Teramo, sotto il profilo quadrato e rassicurante e ventoso del Gran Sasso, ci fossero coltivazioni di banane abbandonate al loro destino. Nonno Stefano era grande, massiccio, vociante. Era comunista. Dai suoi racconti ebbi la prima lezione di pratica politica e di logica necessità del socialismo. “Ah, Stè – gli disse beffardo e sospiroso il padrone, don Vincenzo, quando gli annunciò che sarebbe andato via da San Rustico – adesso tutti a Roma, tutti a mettervi i guanti bianchi!”. “Padrò – rispose nonno Stefano – il problema non è mio, che i guanti non li ho mai portati, il problema è tuo, che devi cominciare a toglierli”. Mi guardava e mi spiegava. “Noi siamo comunisti perché i poveri sono comunisti”. Logico. Semplice. Appariva anche profondamente giusto. Ho amato tutti i miei nonni, abbracci e sorrisi e gesti che ricordo quasi sempre lenti e misurati, ma come spesso accade uno soprattutto fu “il nonno” – quello che poi un po’ diventiamo con gli anni, da cui riceviamo una sorta di stramba educazione, magari persino di beffardo imprinting, un gesto e uno sguardo e una parola ancora capaci di attraversare decenni di assenza. Per me fu nonno Stefano.


 
Nonno Davide invece era magro e quieto e pareva sussurrare, anziché parlare. Negli ultimi anni della sua vita, come a volte succede, i suoi pensieri erano già altrove, certi giorni irraggiungibili anche a quelli che lo amavano. Sono le persone che vanno troppo avanti, che a un certo punto – e proprio quando il passo si fa ancora più lento e i gesti diventano più preziosi – precedono alla velocità della luce pure se stessi. Un giorno eravamo soli, a casa. A un certo punto disse: “Voglio uscire”, e invece di prendere la porta, si avviò verso la finestra. Lo abbracciai forte, per trattenerlo. Era fragile, ma duro come acciaio, di pietra le sue ossa sottili: le braccia, le gambe, le parole urlate, le lacrime, la furia: “Fammi uscire, fammi uscire!!!”. Forse durò un’ora, forse pochi minuti che sembrarono ore. Poi qualcuno arrivò – e nonno, sfinito, si fece ricondurre sul letto. Nei pochi mesi che restò con noi, qualcosa ogni tanto pareva attraversare la sua mente. Mi guardava, un piccolo sorriso, come piccoli erano sempre i suoi sorrisi: “Tu non mi hai fatto buttare di sotto, quel giorno…”, e subito dopo tornava per fortuna a dimenticare. Raccontava una storia bellissima, nonno Davide. Risaliva a quando c’era la guerra, giù in Abruzzo – e le campagne sotto il Gran Sasso erano infestate di nazisti e fascisti in camicia nera, che giorno e notte irrompevano urlando nelle case dei contadini per far razzia di tutto quello che trovavano: animali, grano, pane. A mio nonno Davide era rimasta solo una mucca, una povera magra mucca superstite. Certo nazisti e fascisti l’avrebbero rubata, macellata (era, del resto, la macellazione una loro specialità), divorata. Così per mesi, per paura e per difendere quell’unico suo bene, nonno Davide andò a dormire dentro un fosso, poco lontano da casa, abbracciato all’animale – lui e la bestia fuggitivi dalla furia degli uomini. Poi, una notte nazisti e fascisti arrivarono davvero – e nonno e la mucca erano nascosti dentro al fosso dietro casa, gli occhi sbarrati sulle stelle – e trovarono solo nonna Anna, e sua figlia più grande, Teresa, la mia mamma, una bambina di pochi anni. Nonna Anna era incinta di un altro figlio. Come sempre urlando nazisti e fascisti le ordinarono di consegnare tutto quello che aveva – ma non c’era niente da prendere, vuota la credenza, vuota la cantina, solo la mucca laggiù dentro al fosso. Nonna Anna piangeva, piangeva la piccola Teresa, disperamente attaccata alla gonna della mamma. “Non abbiamo niente…”. Finché un soldato nazista puntò il mitra sul suo grande ventre, minacciando di spararle – e perciò e per sempre, dopo il racconto di nonno Davide, questo per me ogni guerra è: un brigante nazista che punta il mitra sul ventre di una donna incinta. Di questa convinzione, a quel vecchio uomo leggero e di pietra che alla fine dei suoi giorni pensava di poter volare come un uccello dalla finestra, sono ancora grato.

 

Al contrario del marito, nonna Anna era grande, maestosa, un cuore matto, camminava appoggiandosi al bastone, portava al collo una collana di corallo che mandava riflessi vermigli – così che mi pare di ricordare il suo volto sempre dentro questa cornice di luce vermiglia. Sul comò, in camera da letto, aveva una vecchia statuetta di ceramica che io ogni volta guardavo incantato: una damina con un vestito bianco e dei fiori blu, un fiocco rosso sul petto, in testa un vezzoso cappellino con piume rosse e ocra, che suonava una chitarrina gialla. Più sciantosa, forse, e per fortuna, che dama di buona società. A casa dei miei nonni Davide e Anna, che erano venuti via dall’Abruzzo alcuni anni prima di noi, per la prima volta mi capitò di assaggiare il parmigiano. Noi usavamo, e per sempre continuammo ad usare, un formaggio forte di pecora, duro e saporito, che facevano certi parenti giù in Abruzzo. Ne restai meravigliato. “Eh, questo è il cacio di Roma”, mi spiegò nonna Anna. Quando morì, ero lontano – così restò senza un saluto, la mia nonna dalla luce vermiglia. Nonna Maria invece era piccola, minuta. Sempre un fazzoletto in testa, sempre gli stessi piccoli orecchini d’oro che portava da quando era bambina, i capelli bianchissimi. Raccontava di quel prete, laggiù al paese, che col passare degli anni era andato un po’ fuori di testa, e così certi giorni la sua messa durava ore, certi altri se la sbrigava in cinque minuti. “Neanche un’Ave Maria…”. Una volta nonna Maria si lamentò col diretto interessato: “Don R., ma ’sta messa com’è che dura tanto poco?”. E quello: “Marì, io so’ lento a partì, ma una volta partito il diavolo mi si porta!”. Non sapeva leggere, nonna Maria, né scrivere, così che i suoi bellissimi occhi chiari mandavano sempre e in continuazione lampi di stupore: quando le leggevo qualcosa, quando vedeva la televisione, quando passava lunghe ore alla finestra a guardare la gente che passava lì sotto, quando vide i primi fagioli in barattolo o assaggiò con cautela la maionese. Mi pareva un bellissimo curioso folletto, la mia nonna, una bimba ottantenne con le rughe. Per tutta la vita, saggiamente, si rifiutò di rispondere al telefono, quando il telefono, negli anni Settanta, trionfalmente arrivò anche in casa nostra. “Quello dà la corrente!”, avvisava tutti. “Non lo toccate, non lo toccate!”. Se squillava, lo osservava con preoccupazione, aspettava che tacesse, e solo allora, cautamente, alzava la cornetta. Quando arrivò il televisore, col contributo della mamma le costruì attorno un’elaborata mantellina fiorita per proteggerlo dalla polvere e dalla luce. “La luce gli fa male”, sentenziò con sicurezza. Come nonno Stefano, anche nonna Maria era comunista – sempre in base alla convizione che se uno è povero per logica ha da essere pure comunista – ma con cautela, quasi sbadatamente, pareva che persino il comunismo filtrasse attraverso i suoi occhi chiari. La televisione – rinunciato a capire il mistero di tutte quelle persone lì dentro quella specie di scatolone – le piaceva. Si sedeva compostamente, come se dallo schermo potessero scrutare dentro casa nostra, e guardava tutto col suo sguardo di saggia e curiosa testuggine. Poi, quando appariva Enrico Berlinguer si animava, si alzava e poggiava un bacio, con le dita della mano, sull’immagine. “Bello, figlio mio bello”, sospirava. Fu l’ultima dei miei nonni a morire, Maria – chissà, forse anche quel giorno in un lampo di stupore.

 

Nella camera di nonna Maria e di nonno Stefano c’erano, a fianco del letto, l’immagine di Togliatti e quella di Papa Giovanni. Al centro, un crocifisso con un Cristo quasi urlante, spaventato, lo sguardo alzato verso quel cielo inutile, senza risposte. “Pure lui era comunista. Anzi, il primo” – ecco. Sotto, una grande radio. Quando il prete, don Andrea, veniva per la benedizione pasquale, nonno Stefano gli regalava un fiasco di vino: “E’ per te, mica per la messa”. La domenica, invece di portarmi in chiesa, mi trascinava tra i compagni che diffondevano l’Unità – che molto faticosamente lui provava a leggere. Aveva imparato da solo, nonno Stefano: parola dopo parola, scandendole lentamente. Per tutta la vita, possedette solo due libri, che quando ero bambino mi leggeva in continuazione: una storia dei “Reali di Francia”, chissà pescata dove, e ora andata persa per sempre, e una vita di santa Genoveffa, scritta da un tal canonico Schmid: storia di una povera fanciulla, “gentil principessa”, crudelmente abbandonata nella Foresta Nera insieme al suo figlioletto, anzi “figliuoletto”, a nome Schmerzenreich, e qui amorevolmente soccorsi e salvati da una caritatevole cerva (i tre, bestia e figliolanza e fanciulla, erano ritratti sulla copertina del libro, nel cuore minaccioso della foresta). Nonno Stefano provava a variare di tono, mentre lentamente srotolava la cupa storia: “Spesso diceva piangendo, mentre le lacrime cadute si congelavano: ‘Oh! Se avessi qualche favilla di fuoco sarebbe per me un insigne dono del cielo! Ma io dovrò anche intirizzire in mezzo al bosco. Sia però fatta, o Signore, la Tua volontà’…” – e le lacrime mie di bambino (però senza successivo congelamento) facevano eco a quelle della nobile e sfortunata fanciulla. Alla quale, infine, dopo tanto patire, toccò gli onori degli altari, “e molte donne e zitelle, a divota riconoscenza di lei, portano anche oggidì il nome di Genoveffa”. “A me però piace più il mio”, faceva quietamente notare dal suo angolo, vicino alla finestra, nonna Maria.

 

Quando arrivavano le lettere dei parenti dall’America – fratelli e nipoti partiti da decenni, sparpagliati e spersi tra le pianure dell’Ohio e nei pressi di Chicago – toccava poi a me, sotto dettatura di nonno Stefano, rispondere. Ogni lettera che arrivava – fogli leggeri, carta velina che quasi si consumava tra le mani – conteneva un dollaro: quel dollaro era la mia paga per il lavoro svolto. Soprattutto la prosa di zia Luisa affascinava nonno Stefano. Sempre uguale, sempre le stesse parole, e sempre nonno che diceva: “Senti, senti com’è brava zia Luisa”. E dicevano sempre così, quelle lettere: “Noi qui stiamo tutti bene, e così spero di voi…”. E sempre così terminavano: “Adesso vi lascio con la penna ma non con il cuore…”. E ogni volta la promessa di vedersi il prima possibile, si capisce a Dio piacendo. Poi un giorno questi parenti americani – zia Luisa, quella più creativa, zio Giovanni, zia Maria, zia Rosaria, zio Vito – arrivarono veramente in visita, tirandosi dietro barattoli di crema di arachidi, che nonna Maria odorò con cautela e allontanò con decisione, e bottigliette di profumo e dopobarba marca “Old Spice”, il cui odore sembrò persistere per mesi e mesi dopo la loro partenza. Con grande saggezza, nonno Stefano rinunciò alla discussione dialettica, che aveva annunciato di voler aprire con i congiunti d’Oltreoceano, sulle grandi tare e le ingiustizie del sistema americano.

 

[**Video_box_2**](Ma infine, forse, è tutto qui. Eravamo ancora laggiù in Abruzzo. Io ero piccolissimo. La mattina appena sveglio indossavo i miei sandaletti, prendevo un pentolino smaltato di bianco e scendevo sotto, nella stalla, dove nonno Stefano stava lavorando. Smetteva di ammuchiare il letame, mi dava un bacio, posava il forcone, si avvicinava a una mucca, scansava il vitellino che stava succhiando il latte, e con quello stesso latte riempiva il mio pentolino bianco. Seduto su una balla di fieno – lì a fianco, in un canaletto di scolo, scorreva il piscio delle mucche; sopra, sulla testa, appesa al muro, un’immagine di sant’Antonio Abate circondato da ogni sorta di animali – bevevo il mio latte, tiepido e denso, mentre osservavo il vitellino che ricominciava a succhiare il suo. E quello stesso latte condiviso, avrebbe creato con la bestia un legame che sarebbe durato per sempre; e la sua precoce morte in dolore – l’ascia, il coltello, la sega del macellaio – sarebbe diventata una ferita mai più sanata, immedicabile, un lunghissimo spavento. Ma questa è un’altra storia).

 

Così, a mio nonno Stefano sono debitore del nome, di una certa somiglianza fisica, delle prime passioni politiche, di quelle faticose letture a un bambino di pochi anni della triste storia di una fanciulla persa nel cuore della foresta e salvata da una cerva, di quella ciotola di latte tiepido al mattino, dei primi bizzarri sguardi sul mondo – di molti incanti, e di qualche dolore. Alla fine di tutto, baciai la sua fronte fredda, in quella stanzetta d’ospedale, e allora sì che pure le mie lacrime parevano gelare. Dentro la tasca della giacca – che buffo, pareva, nonno Stefano con la cravatta! – feci furtivamente scivolare, di nascosto da tutti, la sua ultima tessera comunista. Casomai pure il Padreterno, lassù, coltivasse il vizio dei guanti bianchi.

 

Tutta qui, la piccola storia dei miei nonni. Forse non è molto, anzi: certo non lo è, ma ancora adesso – adesso che sono passati decenni dalla loro scomparsa, ormai solo un groviglio di tombe e date confuse e ombre con la consistenza dei muri, e i loro figli sono diventati vecchi, e i figli dei loro figli presto lo saranno – c’è un debito di memoria che resiste, una sorta di malinconia che a volte torna a prendersi il cuore. Forse e semplicemente perché furono loro, i nonni, i veri custodi dei miei primi dolori e dei primi stupori.

 

 

 

Le precedenti puntate della serie: Annalena Benini il 22 luglio, Marianna Rizzini il 28 luglio, Mario Sechi il 31 luglio, Mirko Volpi il 4 agosto, Fabrizio Cicchitto il 7 agosto,Daniele Bellasio l’11 agosto, Maurizio Milani il 13 agosto, Renzo Rosati il 18 agosto. Marina Valensise il 21 agosto, Franco Debenedetti il 25 agosto, Marco Archetti il 28 agosto.

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