Vasco Rossi (Foto LaPresse)

I leader politici passano, ma Vasco resta sempre lì

Stefano Pistolini
Da Bersani a Renzi. Breve storia del riuso politico delle canzoni della rockstar, prese in prestito dai candidati-cacciatori di commozione

Come antefatto risaliamo al maestro del pensiero contemporaneo, Checco Zalone, nella fattispecie alla sua canzone per Vasco Rossi. La melodia veleggia tra “Roxy Bar” e “Va Bene Così”, ma è il testo ad avere la briscola. Checco lo introduce sdilinquendosi al cospetto del “più grande cantante italiano, che arriva nel cuore di tutti”, omaggiandolo poi con queste liriche apocrife: “Eeehhh, Eeehhh, Eeehhh / taratarà… / eeehhhh / che te / sei te / mica me / eeeehhhh / che noi / siamo noi / eeehhhh / che loro / sono loro / e vabbé. / Smettila di piangere / tra le fragole / E va bene va bene / fai tutto semplice, te / ma il senso, il senso qual è? / Devi dirmelo te / te che sei là / E mica qua! / Eeeehhh…”. Nonsense. Fake padano. Futurismo vocale che stuzzica il ventre molle e credulone di quel pubblico che non ha voglia di messaggi complicati, ma gode nella pratica dell’identificazione, anche se non è chiarissimo con cosa  (insomma, quel fritto misto di libertà, individualismo e capelli al vento, “core” delle adunate di Vasco Rossi). L’idea di un’Italia non allineata, che da decenni fa di Vasco un leader tanto involontario quanto naturale. E di cui è facile fantasticare un utilizzo ulteriore, per ammiccamenti – ovviamente più elettorali che politici, puntando al bersaglio grosso del consenso e saltando la fase dei ragionamenti. Perciò, che periodicamente Vasco se lo contendano i cacciatori di commozione, è tutt’altro che una sorpresa.

 

Il riuso elettoralistico di Vasco risale al 2009 quando, per il logo della sua campagna congressuale, Pierluigi Bersani optò per lo slogan “Un senso a questa storia”, preso di peso dall’amatissima “Un senso” di Vasco. La risonanza funzionava: medesime radici emiliane, stesso approccio paritario e non divistico con la platea, moderate allusioni giovanilistiche, in particolare al pubblico montante dei trenta-quarantenni: “Tanta gente diceva che nel partito non ci si ritrovava. E io rispondevo che invece un senso ce l’ha”, racconta Bersani. Al congresso ribadisce l’intuizione di Vasco: “Come dice la canzone, domani un altro giorno arriverà e un buon vento per noi può alzarsi. E’ l’idea di una riscossa civica”. La liason però è a tempo determinato: quando nel 2013 Bersani si schiera per la campagna delle politiche, lascia Vasco in un angolo e affida il suo messaggio all’ugola nazionale di Gianna Nannini e al trionfalismo del suo “Inno”. Tra lui e Vasco, alla lunga non poteva funzionare: nel 2011 avevano già sposato cause diverse, col cantante schierato in favore del nucleare e contro la privatizzazione dell’acqua. E Vasco nel frattempo aveva ritrovato il filo d’un vecchio amore dei tempi della sua vita spericolata e del suo arresto per cocaina: quel Marco Pannella che corse a fargli visita in carcere. Quando Pannella fa lo sciopero della fame per lo svuotamento delle carceri, Vasco gli invia i segni della sua solidarietà. Quel che canta lui, la rassegnazione pessimistica e anarcoide, venata di sussulti di intolleranza verso le ganasce del potere, si parcheggia bene nella vecchia accezione libertaria del leader radicale. Perciò con Bersani ciascuno per la sua strada: Pierluigi a cercare il dialogo col Papa e Vasco a fare l’anticristo da bar.

 

 

[**Video_box_2**]Adesso, con Matteo Renzi a caccia d’una parvenza di entusiasmo popolare che sospinga l’infornata di riforme che ha in mente, il pensierino di convocare nuovamente Vasco s’è acceso nelle riunioni dei suoi spin doctors. Le priorità sono: assenso, consenso, sostegno. Perciò Vasco, ma stavolta per negazione e per contraddizione: “C’è chi dice sì”, ovvero c’è chi è pronto a partire e a darsi da fare, a metterci del suo. E’ la parola d’ordine scritta sotto lo scranno della Festa dell’Unità di Milano, la vecchia città-locomotiva dell’ottimismo italiano. "Basta dire no: c'è chi dice sì e crede nell'Italia", scandisce da lì Renzi tra gli applausi, mettendo l’accento sul successo dell'Expo. E proprio all’Expo concede un bis che manda in sollucchero il populismo rockettaro, duettando con Bono, veterano del buonismo e apostolo dell’attivismo da concerto. Bono più un Vasco rivisto e corretto. Ammiccamenti sparati alla pancia dei supporter, quelli di mezza età che esitano, perché non intravedono segnali di riconoscimento. Orgoglio e agenda, altro che disfattismo e apatia. Comunque è difficile che Vasco se ne abbia a male: è un uomo di mondo, capisce che ogni stagione ha bisogno di qualcuno che la entusiasmi. Forse perfino lui potrebbe sottoscrivere l’idea che sia ora di dire sì. E poi la sua canzone mica parlava di riforme costituzionali. La questione era più grossa. Ricordate? “Tanta gente è convinta che ci sia / nell'aldilà qualche cosa e chissà / quanta gente comunque ci sarà che si accontenterà”. Idee da mangiapreti, seppure da poltrona.  “C'è chi dice no c'è chi dice no io non mi muovo / C'è chi dice no c'è chi dice no io non ci sono / C'è chi dice no c'è chi dice no io non ci credo”. Difficile che Vasco prenda posizione sul fatto che il leader di quelli che comandano adesso giri i suoi concetti a proprio vantaggio. Immaginiamo una salomonica alzata di spalle: i capi della politica passano. Vasco invece resta lì, come un faraone. Sicuro, dentro di sé, che la grande Italia continui a somigliare più a lui e al suo modo di pensare, che a quelli che per un momento l’hanno preso in prestito.

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