Oliver Sacks

Il magnifico dottor Sacks, che scambiò sempre i pazienti per personaggi

Mariarosa Mancuso
Le neuroscienze cambieranno, i suoi racconti resteranno. L’ombra lunga di Robin Williams – parlandone da vivo – è arrivata fino ai necrologi del dottor Sacks. Coccodrilli pronti da tempo: il neurologo aveva annunciato lo scorso febbraio che il cancro era tornato, lasciandogli poche speranze.

Abbiamo visto troppi dottori con la faccia di Robin Williams. No, non solo il medico con il naso da pagliaccio, benvenuto in corsia ma insopportabile al cinema (il film era “Patch Adams” di Tom Shadyac). Era già faticoso da reggere in “Risvegli” di Penny Marshall, accanto al paziente Robert De Niro affetto da catatonia: il tipo di film che riscuote consenso universale, chi ne sparla viene guardato come un mostro. Più faticoso ancora per chi aveva letto i casi clinici di Oliver Sacks e non ritrovava nelle immagini della regista nulla di quel che aveva apprezzato sulla pagina.

 

L’ombra lunga di Robin Williams – parlandone da vivo – è arrivata fino ai necrologi del dottor Sacks. Coccodrilli pronti da tempo: il neurologo aveva annunciato lo scorso febbraio che il cancro era tornato, lasciandogli poche speranze. A maggio era uscita la seconda parte della sua autobiografia, con il titolo “On The Move”. Ripartiva da dove si era fermato “Zio Tungsteno”, ovvero l’infanzia londinese di Oliver Sacks: i genitori entrambi medici, la passione per la chimica, la grande casa edoardiana da mettere in pericolo con i propri esperimenti.

 

Il dottor Robin Williams non si sarebbe mai fatto fotografare con il giubbotto di pelle a cavalcioni di una Bmw (e una vaga somiglianza con Marlon Brando, per la faccia da schiaffi). Neppure avrebbe fatto circolare le sue fotografie di quando era campione di sollevamento pesi (le guance ahimé decorate da una barba risorgimentale). Non si sarebbe fatto accusare dai colleghi di trascurare i pazienti, sfruttandoli per costruire la propria carriera letteraria. Non si sarebbe fatto bollare come cultore dello storytelling, oggi la peggiore accusa che si possa muovere a uno scrittore. Ormai tutti ambiscono alla Realtà, all’Autofiction o al Memoir, e le storie non le racconta più nessuno.

 

Oliver Sacks lavorava come prima di lui aveva lavorato Sigmund Freud. Raccontando le storie dei propri pazienti. Usando i casi clinici per costruire personaggi. In “L’ultimo hippie” racconta un giovanotto bloccato negli anni Settanta per un’amnesia, non si riusciva a levargli dalla testa l’idea che Janis Joplin e Jimi Hendrix fossero ancora vivi. In “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” racconta un tizio incapace di riconoscere volti e oggetti: gli occhi funzionano benissimo, ma il cervello rifiuta di fare la sua parte. In “Su una gamba sola” racconta un suo terribile incidente sulle montagne norvegesi. Riuscì a salvarsi, ma la convalescenza fu peggio: non riconosceva più come propria la gamba malconcia, al contrario degli amputati che sentono e soffrono con l’arto che non c’è più.

 

[**Video_box_2**]Dora e Anna O. forse non erano esattamente come le racconta Freud nei suoi casi clinici, e già da tempo la psicoanalisi ha smesso di essere la misura di tutte le cose. Ma le loro storie resteranno – e del resto Freud parlava di “romanzo familiare”, perché la vita, non solo in famiglia, è come ce la raccontiamo. Resteranno le storie di Oliver Sacks, anche se le neuroscienze cambieranno con il tempo, e certe teorie saranno superate.

 

Per tutta la vita Oliver Sacks scrisse diari, già da ragazzino lo chiamavano “Inky”, da “ink” come “inchiostro”. “On the Move” – uscirà da Adelphi – riparte dal collegio dove era vittima dei bulli, dal kibbutz dove dimagrì di trenta chili in tre mesi, dalla puttana francese che il fratello gli procurò per distrarlo dai maschi (gli piacevano di più, pur praticando pochissimo). Ogni cosa raccontata con la grazia e la magnifica prosa a lungo sperimentate sui pazienti.

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