Resistenza senza resa. Perché il Family Day sarebbe piaciuto ad Augusto del Noce

Luca Del Pozzo
La manifestazione di San Giovanni può a ben diritto essere classificata come un esempio pratico della "metafisica civile", per cui non può non avere anche una traduzione politica, nel senso cioè di farsi “polis”, mondo, storia. Luca Del Pozzo risponde a Maurizio Crippa.

Al direttore - Le questioni poste da Maurizio Crippa nell'articolo sulla manifestazione di S. Giovanni del 20 giugno – ad oggi la più interessante e densa riflessione che mi sia capitato di leggere in un mare magnum di commenti spesso e volentieri viziati da intolleranza e pregiudizio, per non parlare dell'indegna caciara mediatica scatenata contro Kiko Arguello solo per aver detto una verità di sesquipedale evidenza sul femminicidio (fenomeno per altro ad alto tasso di politically correctness) – fanno tutt'uno con la questione circa il senso e il significato dell'essere cristiani in un mondo e in una società che, diciamolo fin da subito a scanso di equivoci, di Cristo e dei cristiani se ne infischiano altamente. E dove anzi non è difficile scorgere, e l'ideologia del gender con tutti gli annessi e connessi ne è un caso esemplare, il volto dell'Anticristo mirabilmente tratteggiato, in epoca non sospetta, da gente come R.H. Benson e V.Solovev.

 

Mi sia consentita una breve parentesi personale. Quando mi arrivò la notizia di una grande manifestazione di famiglie a favore della famiglia e dei figli, non ebbi il minimo dubbio che fosse una cosa buona. E anzi, stante l'irrilevanza di fatto, su questo come su altri problemi, dei (pochi) politici cattolici presenti in parlamento, ero da tempo persuaso che toccava a noi laici, uomini e donne, prendere l'iniziativa. Ragion per cui la notizia mi trovò sì sorpreso per l'improvvisa accelerazione, ma certo non impreparato. Tanto più che di lì a poco giunse la conferma ufficiale che la manifestazione partiva dal basso, e che erano state le famiglie stesse a chiederla e a muoversi, senza imprimatur o spinte dalla gerarchia che, com'è noto, in alcuni casi si è opposta frontalmente in nome di non meglio precisate altre modalità di azione, meno muscolari e più all'insegna, manco a dirlo, del dialogo (già, ma dialogo tra chi, e in rappresentanza di chi, di grazia?). Con ciò dimenticando i numerosi esempi – dai Maccabei le cui gesta vengono narrate negli omonimi testi biblici (e sottolineo: biblici, testi sacri), ai cattolici della Vandea durante il terrore giacobino; dai Cristeiros in Messico (alcuni dei quali elevati agli onori degli altari da S. Giovanni Paolo II), che si opposero alla persecuzione laicista scatenata dall'allora presidente, il massone e anticlericale Plutarco Elia Calles, alla vicenda della "Rosa Bianca", la resistenza pacifica di un gruppo di studenti cattolici all'abominio nazista, per dirne solo alcuni – che stanno li a testimoniare come nel corso della storia ci sono stati momenti in cui i cattolici (e non solo) hanno sentito l'urgenza di "combattere la buona battaglia della fede" non solo con la testimonianza personale, la preghiera ecc., ma anche esercitando il loro munus profetico come popolo. Decisi quindi senza esitazioni che con moglie e figli avremmo fatto parte di quella allegra compagnia (a difesa) dell'anello (nuziale). In ciò confortato, da un lato, dal magistero della chiesa, che non presenta mai la falsa alternativa tra esigenza di conversione personale e obbligo morale, in determinati casi, di intervento nella e per la società. E a tal proposito, vale la pena citare il Catechismo della Chiesa Cattolica (s'intende, quello varato da S. Giovanni Paolo II), che al numero 1888 così recita: "La priorità riconosciuta alla conversione del cuore non elimina affatto, anzi impone l'obbligo di apportare alle istituzioni e alle condizioni di vita, quando esse provochino il peccato, i risanamenti opportuni, perché si conformino alle norme della giustizia e favoriscano il bene anziché ostacolarlo". Un'indicazione chiara, che si pone nel solco del Vaticano II: “Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane” (Lumen Gentium 36). Dall'altro, mi fu assai utile in quei giorni la rilettura di uno scritto di Bonheffer, "Resistenza e Resa", che raccoglie le lettere dalla prigionia del grande teologo e pastore evangelico impiccato dai nazisti a Flossenburg il 9 aprile del 1945. In una di queste, che dà il titolo al volume, Bonheffer dice: “Mi sono chiesto spesse volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa davanti al «destino»”. Per poi aggiungere poco dopo: “…dobbiamo affrontare decisamente il «destino»…e sottometterci ad esso al momento opportuno”. Ecco la giusta prospettiva. Resistenza: vista l'emergenza della situazione attuale, e posto che in tale emergenza l'inerzia - magari in nome di una visione del cristianesimo come rassegnazione supina - è parente stretta della collusione, tentare per quanto possibile di arginare lo tsunami che sta per travolgere la nostra società qualora fossero approvati i ddl Cirinnà, Scalfarotto e Fedeli. Tre facce di un unico disegno ideologico gender oriented, che punta a soppiantare la famiglia naturale, educare le nuove generazioni fin dalla più tenera età (leggasi lo sconcertante documento "Standard di educazione sessuale in Europa" dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, che per i bambini da 0 a 4 anni suggerisce la "masturbazione infantile precoce") e mandare in galera con il marchio d'infamia di "omofobo" chiunque osi pensarla diversamente dalla vulgata. Il tutto, in nome delle magnifiche sorti e progressive delle pari opportunità, del contrasto al bullismo, dell'educazione alla diversità e della lotta alle discriminazioni: nobili e sacrosanti principi che però vengono abilmente manipolati dalla propaganda gender per essere usati come "scudi umani" al fine di proteggere e nascondere l'obiettivo sensibile dell'omosessualismo. Ma, allo stesso tempo Resa: mettersi nella disposizione d'animo di accettare quello che Bonheffer chiamava il "destino", ovvero il "sia fatta la tua volontà" nella ferma e fiduciosa consapevolezza che è Dio che governa la storia. Va da sé che in quest'ottica non vi può essere alcuna tentazione o rischio di integrismo, quanto piuttosto la volontà di testimoniare, profeticamente, la verità sull'uomo e sulla donna, sulla famiglia e sul matrimonio, e che nessuno si può arrogare il diritto - tanto meno lo stato - di educare sessualmente i nostri figli, posto che in questo come in qualsiasi altro ambito sono i genitori i primi educatori dei bambini, come recita la Costituzione Italiana e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo.

 

Non dunque integrismo ma integralità, il fatto cioè che si è chiamati ad essere cristiani sempre e ovunque, senza la distinzione, tipica della religio, tra sacrum e profanum. In piazza come in ufficio, tra le mura domestiche o alla partita di calcetto, in chiesa come in parlamento: se si è cristiani, lo si è sempre. Allo stesso modo, il giusto e sacrosanto rispetto per la laicità delle istituzioni, se da un lato mette al riparo da qualsiasi tentazione teocratica (tipica invece dell'Islam radicale), dall'altro non autorizza nessuno, nonostante a ciò punti il laicismo, a considerare la fede un affare di coscienza e, quindi, a relegarla negli angusti anfratti del foro interno. Questo perché la fede cristiana, per sua natura, ha a che fare con la storia. E toccando la storia non può non avere una ricaduta anche sulla polis. La fede è primariamente un incontro personale ed esistenziale con una Persona, pena la riduzione del cristianesimo a intellettualismo astratto; ma non si esaurisce nella propria vicenda, c'è anche un risvolto politico e sociale, nel senso più alto e nobile dei termini. Questo è stato, a ben vedere, l'errore di tanta parte del mondo cattolico, soprattutto nel post concilio: credere che dirsi moderni significasse, anche sulla scia di una lettura miope dell'autonomia delle realtà terrene, vivere la propria fede privatamente, lasciando alla politica e alle sue regole lo spazio pubblico. Ciò in cui è consistito, da un lato, la protestantizzazione di fatto della società e, specularmente, l'avanzata del laicismo; dall'altro, la ricerca di categorie interpretative altre, rispetto alla fede, con cui leggere la realtà: un errore prospettico alla base, tra le altre cose, di quel fenomeno dalle conseguenze devastanti sotto ogni profilo che è stato il cattocomunismo.
A mio avviso la manifestazione di S. Giovanni può a ben diritto essere classificata come un esempio pratico della proposta filosofica di Augusto Del Noce, quella "metafisica civile" che in un saggio di qualche anno fa indicai come cifra del suo pensiero, e su cui ho avuto modo di tornare in un intervento pubblicato sul Foglio alla fine dell'anno scorso in occasione del 25° anniversario della scomparsa del grande filosofo cattolico. L’ingresso prepotente sulla scena occidentale della “società opulenta” (che Del Noce intravvide già nella seconda metà degli anni '60), poneva già all'epoca quella che nella prospettiva di Del Noce era “la” questione, ovvero la questione antropologica, nei cui confronti della quale per i cattolici non vi era che un atteggiamento da assumere: quello della “risposta a sfida”. Come nei confronti del marxismo, si trattava di vivere e approfondire con rigore la propria posizione di pensiero chiedendo all’avversario di fare altrettanto: sarebbe stata poi la storia a decretare il vincitore tra i due contendenti, nel momento in cui una delle due opzioni si fosse rivelata contraddittoria con le sue finalità. Per il filosofo cattolico l’atteggiamento della “risposta a sfida” voleva dire evitare quattro diverse alternative: a) posizione tradizionalista: è la posizione di coloro i quali considerano la nuova società in aperto e irrimediabile contrasto con i valori cristiani tradizionali, e pertanto invocano l’intervento dell’autorità politica per il rispetto almeno formale di essi; b) posizione della Chiesa delle catacombe: qui, al contrario, si respinge il ricorso all’imposizione dall’esterno della verità, per puntare, invece, al rinnovamento dall’interno della società tramite la purificazione personale e l’opera di apostolato. Si tratta cioè di farsi missionari in un mondo ormai scristianizzato, senza però ricorrere al braccio secolare; c) posizione di coloro che distinguono in modo netto il piano temporale da quello spirituale: secondo tale prospettiva la Chiesa ha una missione di ordine essenzialmente spirituale e non deve farsi promotrice di progetti politici o culturali che abbiano come obiettivo l’instaurazione di una “nuova cristianità”. Solo in tal modo si avrebbe una politica realmente democratica, cioè deideologizzata, e il venir meno della tentazione, per la Chiesa, dei compromessi politici; d) posizione del progressismo cattolico: è l’atteggiamento di quella teologia che vuole conciliare i dati della tradizione cristiana con le acquisizioni della scienza moderna, ovvero neomodernismo.

 

[**Video_box_2**]Per il filosofo torinese tutti e quattro gli atteggiamenti descritti avevano in comune un errore di fondo, vale a dire l’incapacità di considerare la situazione contemporanea come l’urto tra due opposte antropologie, quella religiosa e quella sociologistica (oggi potremmo dire laicista). Qualora invece fosse stato chiaro che di ciò si trattava, e non di altro, allora il cattolico avrebbe dovuto perlomeno sentire la necessità di muoversi in tutt’altra direzione. E in tal senso, l’atteggiamento della “risposta a sfida”, nella sua accezione positiva, si può riassumere nell’impegno culturale, quindi anche politico, per la “restaurazione dei valori”: contro l’esito catastrofico a cui era giunto il pensiero rivoluzionario, la sfida consisteva nella riproposizione del pensiero tradizionale, ovvero affermazione del primato dell’essere, dell’intuizione intellettuale e del valore ontologico del principio d’identità, lungo una linea di pensiero che da Cartesio arrivava a Rosmini, alternativa a quella Cartesio-Nietzsche che storicamente aveva prevalso. Non vi erano insomma che due alternative: “o Chiesa o il nichilismo”. Ma la riaffermazione dei valori tradizionali non significava affatto restaurazione di un ordine temporale cristiano sul modello delle società del passato; lungi dall’essere nostalgico della vecchia alleanza tra Trono e Altare, Del Noce mirava piuttosto al recupero del cattolicesimo dentro e non contro la modernità, capace cioè «di reggere alla sfida del pensiero moderno: un cattolicesimo non determinato dalle opposte correnti culturali ma, al contrario, esprimente categorie di giudizio per la comprensione del proprio tempo più valide e adeguate di quelle proposte dal pensiero laico». In tal senso è del tutto inadeguato l’appellativo di “reazionario” con il quale è stato più volte etichettato; accettando la “sfida” della modernità e, in particolare, della società opulenta, egli intendeva piuttosto riferirsi alla frase demaistriana secondo la quale «una controrivoluzione non è una rivoluzione di segno contrario, ma il contrario di una rivoluzione». Nei confronti della società secolarizzata ciò significava, come compito per la filosofia, dissociazione del liberalismo dal libertinismo nella sua versione moderna, per approdare ad un liberalismo centrato sulla realtà della persona: questa, e solo questa, ha il diritto-dovere, ad un tempo, di “tradurre” nella storia i principi e i valori trascendenti, e di combattere contro il male che è dentro di sé come possibilità sempre reale: lo spazio in cui si attua tale lotta è ciò che si chiama libertà civile o politica. Del Noce aveva chiaro fin dall’inizio, come dato certo e indiscutibile, l’essenziale storicità della Rivelazione cristiana: il cristianesimo è un evento storico, non un’ideologia o un sistema di pensiero, nè tanto meno un affare di coscienza. Ed è proprio nella riduzione del fatto religioso a foro interno che egli vide il segno del cedimento di tanta parte della cultura cattolica a quell’idea di modernità che storicamente ha prevalso, e che si è sviluppata lungo il già citato asse Cartesio-Nietzsche. Ma se all’opposto si tiene ben presente la storicità del cristianesimo, ne consegue che questo non può non avere anche una traduzione politica, nel senso cioè di farsi “polis”, mondo, storia. Ecco il senso allora della "metafisica civile”: si tratta di una filosofia cristiana che implica e richiede un nesso indissolubile tra pensiero ed esperienza, interiorità ed esteriorità, onde una “propria e personale” riaffermazione del pensiero tradizionale in grado di tradursi, per sua natura, in una “polis” realmente degna dell’uomo. "Metafisica civile", dunque, come via di mezzo tra le secche del laicismo e dell'integrismo. Una proposta all'insegna di un sano realismo cattolico, a mio avviso quanto mai attuale per affrontare una sfida che, oggi più che mai, i cattolici sono chiamati ad assumere. Senza dimenticare, come dice la Lettera a Diogneto, che "come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani".

 

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