Detective e manierismi
I film hanno il problema del secondo atto. Nel primo capiamo chi è il protagonista e cosa vuole. Nel terzo scopriamo se ce l’ha fatta oppure no. Nel secondo una serie di ostacoli tiene l’eroe lontano dal suo graal, più ce ne sono più la storia appassiona. Non devono essere buttati lì senza criterio, né moltiplicati per il gusto di farlo: nelle trame che funzionano un ostacolo superato ne produce un altro (e in genere lo spettatore capisce il disastro prima del protagonista).
Le serie hanno il problema della seconda stagione. Vale per “Homeland – Caccia alla spia”: il prigioniero al Qaida che ritorna, forse passato al nemico, e l’agente della Cia che di nascosto prende pillole per l’umore. Saggiamente, la serie originale israeliana (“Hatufim” di Gideon Raff) rimpolpava la trama con tre prigionieri di guerra. L’adattamento americano era centrato solo sull’agente Carrie Mathison, ossessionata dalle tragedie americane fin da ragazzina, e sul marine Nicholas Brody, a cui forse hanno candeggiato il cervello. Non ci vollero molti episodi per esaurire i doppi e i tripli giochi.
Vale a maggior ragione per una serie antologica come “True Detective” (su Sky Atlantic, sottotitolata dall’altro ieri, in contemporanea con gli Usa). Fin dall’inizio Nic Pizzolatto aveva deciso di cambiare attori, ambientazione, trama a ogni stagione. E’ stato di parola. Esce la coppia Woody Harrelson-Matthew McConaughey. Entra la coppia Colin Farrell-Vince Vaughn, più Rachel Adams: residuo di quando le voci annunciavano di due poliziotte protagoniste. Va detto che le illazioni e le scommesse sulla trama avevano raggiunto un tale livello di delirio che quando Pizzolatto borbottò “la seconda stagione sarà sulla storia segreta del sistema di trasporti americano” lo presero sul serio.
[**Video_box_2**]Addio Louisiana, siamo dalle parti di Los Angeles. In una cittadina immaginaria battezzata Vinci, pare modellata su Vernon: magazzini, impianti chimici, macelli e qualche fabbrica puzzolente. Colin Farrell ha i baffi, come in “The Lobster” di Yorgo Lantimos, terribile film greco premiato a Cannes: pare abbia strenuamente resistito, senza successo. Pizzolatto tiene in poco conto le opinioni altrui. E le writers’ room, per averci lavorato all’inizio della sua carriera da sceneggiatore. Odia gli stanzoni dove lavorano in tanti, buttando sul tavolo idee e situazioni che poi verranno scelte, sviluppate, suddivise tra i vari scrittori. Ha scritto la prima stagione di “True Detective” tutta da solo, e così ha fatto anche per la seconda.
Se vince il merito è tutto suo (“non lo deve spartire neppure con gli attori”, fa notare nel suo articolo su Vanity Fair Rich Cohen, che stava con Nic Pizzolatto in una di quelle writers’ room). Se perde sarà solo colpa sua. Al massimo del regista taiwanese Justin Lin, in curriculum la saga “Fast & Furious” – per lo più corse e scontri d’automobili. Nel primo episodio della seconda stagione cambia tutto per non cambiare niente: atroce delitto, poliziotti scoglionati, santone filosofeggiante, intrallazzi e corruzione. Si sospetta un po’ di manierismo. Capita spesso agli sceneggiatori promossi autori: dopo la gavetta, finalmente liberi, azzeccano il primo lavoro (che fu temprato dagli ostacoli) e cedono nel secondo.
Intervista a Gabriele Lavia