Quella foto a Termini e la perdita del senso simbolico dei confini

Adriano Scianca
C'è qualcosa di tremendamente simbolico nella foto dello sbandato cosmopolita che alla Stazione Termini ha pensato bene di concedere un allucinato spettacolo scatologico ai passanti.

C'è qualcosa di tremendamente simbolico nella foto dello sbandato cosmopolita che alla Stazione Termini ha pensato bene di concedere un allucinato spettacolo scatologico ai passanti. Come ogni luogo di Roma, anche quello in cui sorge lo scalo ferroviario più importante d'Italia ha infatti una storia sacra ancestrale, nello specifico legata a Terminus, l'antico dio dei confini. Una funzione che in qualche modo, prosaicamente, Termini ancora svolge, dato che una stazione ferroviaria è appunto una porta sulla città. Una linea di confine che noi custodiamo in questo modo, fra barboni e tossici, trans e folli, baby gang e truffatori. Idem alla Centrale di Milano. Questo perché abbiamo completamente perso il senso simbolico di cosa sia un confine. I romani, al contrario, ce l'avevano ben presente, tanto da avere appunto un dio che li custodisse. Il santuario di Terminus si trovava sul Campidoglio prima che vi fosse costruito il tempio di Giove Ottimo Massimo. Quando Tarquinio il Superbo cercò di exaugurare il luogo affinché l'area fosse dedicata esclusivamente al nuovo dio, soltanto Terminus (che all'inizio era solo un masso: Capitoli immobile saxum, lo definisce Virgilio nell’Eneide) oppose una ferma resistenza. Terminus resisteva persino a Giove. O forse, più semplicemente, non voleva lasciarlo, per l'ovvio legame che unisce il dio principale della funzione sovrana a quello protettore dei confini. Terminus restò al suo posto, e anzi si praticò un foro sul tetto affinché dimorasse sotto al cielo.

 

[**Video_box_2**]Secondo Festo, infatti, per il dio dei confini era nefas intra tectum consistere: il confine deve essere chiaro, visibile a tutti, pubblico, non può stare al chiuso. Ad ogni modo per i romani quel prodigio di un dio che rifiutava il trasloco fu letto, scrive Livio, come un auspicium perpetuitati: il perimetro dello Stato romano sarebbe stato inamovibile. I confini, a Roma, erano una cosa seria. Tanto quelli dell'Urbe, quanto quelli privati, segnalati per l'appunto da pietre terminali. Chi violava una pietra terminale veniva dichiarato “sacro” a Terminus: in sostanza poteva tranquillamente essere ucciso. Violare un confine, attraversare una frontiera, non è mai un gesto neutro, insignificante. Quando entravano in uno spazio ignoto i romani evocavano i numina sconosciuti e invocavano “colui a cui è sacro questo luogo, che tu sia un dio oppure una dea”. Una cortesia al cui confronto la richiesta un po' borghese del “rispetto per le nostre usanze” da parte degli allogeni appena sbarcati è davvero poca cosa. Una terra, un popolo, una presenza divina: il mondo è costruito su questo architrave sacro, la cui decostruzione non può essere indolore. Il che non implica del resto alcuna ossessione claustrale. Nei Terminalia, che si celebravano il 23 febbraio, ultimo giorno (cioè, appunto, termine) dell'anno romano, i proprietari dei terreni adiacenti compivano sacrifici insieme. Che i confinanti celebrassero, insieme, il confine stesso è un altro punto chiave. Il confine separa e unisce al tempo stesso. In quanto elemento di separazione, è la condizione di possibilità di ogni dialogo, che deve essere fra differenti e non tra uguali. Il medesimo paradosso è anche linguistico: il latino terminus e la forma neutra termen si ricollegano infatti alla radice indoeuropea tar-, tra-, la quale esprime l'idea di attraversare, oltrepassare. All'origine dell'invalicabilità c'è il suo superamento. Scrive Ovidio nei Fasti che in occasione dei Terminalia così ci si rivolgeva al dio: “Tu delimiti i popoli e le città e i grandi regni: senza di te ogni campo sarà litigioso. Nessuna ambizione in te, non sarai corrotto da nessun oro, conservi con legittima lealtà le terre affidate”. L'oro non compra Terminus. Il confine è sacro perché non è in vendita. Anche se il suo attraversamento disordinato da parte di masse di disperati può far arricchire le cricche degli empi.

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