Cercare Ulisse fra le pietre di Itaca e trovarlo dove meno te l'aspetti. Perfino a Porta Portese

Alessandro Giuli
Domenica a Porta Portese ho rincontrato Ulisse. Proprio lui, il Laerziade dai capelli schiumosi e la vista ardente di chi sta per accecare Polifemo. Una buona copia in marmo dell'Ulisse che decorava la Grotta di Tiberio a Sperlonga. La vendeva un napoletano. “Costa poco, sto inguaiato assai”. Inguai

    Domenica a Porta Portese ho rincontrato Ulisse. Proprio lui, il Laerziade dai capelli schiumosi e la vista ardente di chi sta per accecare Polifemo. Una buona copia in marmo dell’Ulisse che decorava la Grotta di Tiberio a Sperlonga. La vendeva un napoletano. “Costa poco, sto inguaiato assai”. Inguaiato come Ulisse e ansioso come chi di Ulisse, o se volete di Odisseo, voglia ricercare le tracce profonde. A Itaca scavò con abnegazione anche Heinrich Schliemann, pochi lo ricordano. S’era convinto d’aver scovato la reggia di Ulisse ma poi non era lei e ancora oggi non c’è concordia fra gli archeologi. Schliemann fu molto colpito dall’abitudine dei giovani itacesi che cantilenavano a memoria i versi di Omero, ovvero dell’aedo Femio, per rimanere ai personaggi del poema.

     

    Ricordo d’essere giunto a Itaca passando dalla baia di Azio e transitando per Lefkada, l’isola della luce funesta a Saffo e sacra ad Afrodite (e lì ci si risveglia ancora avvinti dai lacci di tante Calipso gioiose e frementi). Itaca invece è un’isola scorbutica, petrosa come in antico, sembra che in pochi chilometri quadrati racchiuda l’intera vicenda del nostos odissaico, il tempestoso ritorno di Ulisse. C’è sempre la fonte di Aretusa dove lui incontrò il fedele porcaro Eumeo, è disagevole da raggiungere, si deve percorrere un ripido pendio sovrastato da una falesia imponente chiamata Korax, cioè il Corvo. Vi si giunge con l’illusione di una frescura risanante, poi si scopre che la poca acqua non intubata gocciola pigra in un secchio per dissetare al massimo vespe e caprette. Non resta che risalire sitibondi come Ulisse, e mettersi in marcia per cercare la sua reggia, in compagnia di Schliemann e dell’archeoguida ellenica scritta dalla coppia Torelli-Mavrojannis, talmente usurata da poter offrirla in dono nel tempio di Minerva, talmente sperimentata da poter riscriverla corretta d’ogni errore. Ma Itaca non ti regala niente, a parte salsedine e fatica. C’è per esempio quel tratto della strada principale, la sola vera strada di Itaca, che all’altezza del versante occidentale disegna una curva infinita, ecco: ogni volta a percorrerlo si viene colti da uno straniamento improvviso, come un dolcissimo colpo di sonno, tanto che l’ho soprannominata la Via dei Lotofagi. Se cerchi la reggia di Ulisse devi mettere in conto i depistaggi di un genio del luogo capricciosetto. Non la troverai a sud, vicino al museo archeologico: lì solo pietre sconnesse, forse tombe, di certo cisterne inaridite e alberi scuoiati da un Maestrale vorace come le fauci dei Lestrigoni. Non lo troverai a nord, il focolare di Ulisse, fra terrazzamenti brulli e mulinelli di terra sottile sottile e accecante come una carezza di Circe. Forse non si troverà mai, la reggia del Laerziade, seguendo le altrui orme e i libri degli eruditi. Bisogna provare con l’istinto, magari nell’ora di Pan (tra mezzogiorno e le tre), meglio se a digiuno o con un tascapane ridotto all’essenziale (formaggio di capra, olive, acqua), dopo aver lasciato una pia offerta al platano che fa ombra al sentiero dei viandanti addossato sul promontorio che domina il porto moderno. Ma dove andare? Silenzio, istinto, uno sguardo amichevole a quel pastore lì che si finge dormiente ed è in realtà il genio capriccioso di prima, e osserva e scruta col suo occhio minervale tutto azzurrato se davvero abbiamo deposto la tirannia della mente (i suoi quesiti arroganti e vampireschi come innumerevoli Proci che banchettano a base di dubbi e controdubbi), se davvero abbiamo liberato la nostra rosa dei venti interiore. Salire si sale, il tratturo c’è, fra olivastri e tamerici, porta a un piccolo pianoro delimitato da blocchi squadrati di pietra. Nulla di noto, però una sensazione di familiarità. Poco importa se la reggia sia qui, se sia questo il posto cercato. Ma se la mèta fosse il cammino, se il vero obiettivo fosse il modo giusto di cercarlo? A questo punto sì, ora qualcosa diventa possibile, perfino indovinare il profilo di Ulisse scolpito dalla natura sulla parete rocciosa: ha la barba e forse, anzi no, è sicuro che sulla testa ha il pileus, il cappello conico a forma di cielo stellato, privilegio dei Dioscuri e dei caprai (e di Calimero!, motteggiano i profani prima d’accorgersi che dicono una cosa saggia perché quel cappello è la metà di un uovo cosmico, origo mundi).

     

    Dunque ci siamo, Itaca si apre al sorriso ed è tutto un tintinnar di raggi solari che accompagnerà il viandante verso l’ultima sosta del suo viaggio: l’Antro delle Ninfe descritto da Omero e disvelato da Porfirio nella sua valenza esoterica. Qui si compie il mistero dell’acqua e ci sono ancora i telai fatti di pietra con cui le Ninfe nottetempo s’affaccendano a tessere il corpo delle anime chiamate dal cielo e rigenerate nella grotta (un giorno diverranno carne e vento, oppure api dal colore del miele, purificate della loro natura inferiore). Qui i Feaci sbarcarono Ulisse dormiente e allora si comprende perché il calcidese Licofrone lo chiama “Nanos”, ovvero l’Errante Pelasgo, l’iniziato salvato dalle acque. In una variante mitistorica Licofrone lo fa amico di Enea (“obliata l’inimicizia antica”), capostipite etrusco-latino seppellito – lo dice pure Teopompo – a Cortona sopra il colle chiamato Perge, “monte tirrenico”. Così gli aveva predetto l’indovino tebano Tiresia, durante la discesa nell’Ade. Ma per Ulisse non c’è morte definitiva, anche per lui la mèta è il cammino, e Porta Portese una sosta fra tante.