Simone Weil

25 aprile. Commozione per commozione, meglio Simone Weil di Fazio

Alfonso Berardinelli
Il 25 aprile di quest'anno, settantesimo anniversario della liberazione dal nazifascismo, sembra aver provocato un'ondata insolita di commozione patriottica. Ci si chiede perché, come mai. Spettacoli in piazza davanti al Quirinale, con una bella sfilata di divi, a volte più e a volte meno credibili.

Il 25 aprile di quest’anno, settantesimo anniversario della liberazione dal nazifascismo, sembra aver provocato un’ondata insolita di commozione patriottica. Ci si chiede perché, come mai. Spettacoli in piazza davanti al Quirinale, con una bella sfilata di divi, a volte più e a volte meno credibili. Ho dovuto domandarmi ancora una volta che cosa ha in mente De Gregori, sempre così rigidamente impostato in Veltroni-style, quando canta la sua canzone “Viva l’Italia”, quasi commovente se si è capaci di sorvolare sulle parole. Il conduttore della serata Fabio Fazio l’ho trovato ancora più ineffabile del solito. Non so perché, ma non gli credo. Non gli credo mai e forse sono ingiusto. Non gli credo soprattutto quando spinge il pedale della composta commozione etico-politica. Forse perché trovo seccante che qualcuno voglia commuovermi e approfitti sempre dell’occasione buona, della vicenda e del personaggio che in effetti sarebbero comunque commoventi, anzi ancora più commoventi senza Fazio, senza l’aggiunta della sua prestazione sacerdotale. La Resistenza, gli eccidi, i filmati dei partigiani, cittadini di tutte le classi sociali con il fucile in mano. Le folle in festa, con quelle donne italiane che ridono e abbracciano i soldati americani. Gli innumerevoli morti in guerra o trucidati dai nazisti con una ferocia inconcepibile che tuttavia si ripete spesso e continua a ripetersi in tutte le guerre di qualunque entità e durata. E ora, nella festa, una folla di spettatori anche loro giustamente commossi che cantano “Bella ciao” (per una volta al momento giusto e non a sproposito come Santoro) dopo aver visto i filmati di insurrezioni vere di decenni e decenni fa. Anche la commozione è momentaneamente vera, ci vuole poco. Resta il dubbio se siamo altrettanto veri noi e di che materia sono fatti la nostra memoria e il nostro patriottismo della domenica.

 

Mi è capitato di sfogliare e leggere proprio in quei giorni le lettere scritte da Simone Weil nel corso del suo doppio viaggio in Italia, la prima volta dall’aprile al giugno 1937, la seconda dal maggio alla fine di luglio del 1938. Queste meravigliose lettere sono state appena pubblicate da Castelvecchi a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito (“Viaggio in Italia”, 121 pp., 16,50 euro). Furono scritte nel biennio in cui in Italia e in Europa la crisi politica degenerava. Ci fu il bombardamento di Guernica con cui i nazisti rasero al suolo la città basca, l’invasione e annessione tedesca dell’Austria, l’incontro a Roma fra Hitler e Mussolini, le leggi razziali fasciste. “Il clima è pesante” scrivono i prefatori “e di tutto questo Simone è certamente informata: non è sua abitudine viaggiare in modo ingenuo, ha una precisa cognizione dei rischi e della gravità del momento. Ed è proprio per questo che sente, con forza, che ‘deve’ andare in Italia”, come nel 1932 era andata a Berlino per capire come e perché la Germania “con esplicito consenso del popolo e delle istituzioni, si sarebbe consegnata al nazismo”.

 

Simone Weil vede gli italiani come erano sotto il regime fascista, poco prima della guerra. E’ avida di scoperte, vuole incontrare l’Italia nei suoi più diversi aspetti: l’arte, i paesaggi, la vita di tutti i giorni, la gente. Si ubriaca di bellezza. Segue il Maggio musicale fiorentino: “Le bellezze di Firenze” scrive a un amico “sono tali che d’Annunzio non sarebbe capace di celebrarle, almeno così penso. Lo dico a lode di Firenze, perché sono lungi dal condividere la sua simpatia per ‘Il fuoco’ (…) questo modo di concepire l’arte e la vita mi fa orrore, e sono sicura che quest’uomo, molto presto, sarà profondamente e giustamente dimenticato”.

 

Non si tratta di pregiudizio ideologico, ma di giudizio. Legge Dante, le poesie di Michelangelo e di Lorenzo il Magnifico, Galileo, Machiavelli.

 

Solo Assisi, ai suoi occhi, sembra superare Firenze: “Tanto sono rimasta abbagliata da quelle campagne così dolci, così miracolosamente evangeliche e francescane, da quegli oratori così commoventi e da quei nobili esemplari della specie umana che sono i contadini umbri. (…) Non avevo mai immaginato un paese tanto meraviglioso”.

 

[**Video_box_2**]Le esperienze immediatamente precedenti le ha vissute come operaia di fabbrica e come combattente antifranchista in Spagna. Due esperienze dolorose e disperanti che l’hanno provata duramente. Nelle lettere dall’Italia troviamo invece una Weil felice e deliziata da continue scoperte grandi e piccole (la pasta al sugo, le fiaschetterie, il caffè con panna, la comunicativa degli operai italiani…). Il suo antifascismo è radicato, eppure in tutta onestà scrive: “Se non ci fosse l’esaltazione della guerra, molti aspetti del sistema mi attirerebbero, ma il sistema ha sostanzialmente bisogno di questa esaltazione, che mi turba non tanto per ragioni umanitarie, ma perché suona falsa. La vita e la morte non sono così. La seduzione della guerra è fin troppo reale, ma non ha nulla a che vedere con tutte quelle parole vuote. Esse, poi, appaiono ancora più vuote in questo paese, in mezzo a questo popolo”.

 

Segue il breve racconto dell’incontro casuale con “un giovane operaio fiesolano che si è messo a chiacchierare con me. Vedendomi con dei libri in mano, mi ha detto che gli sarebbe piaciuto studiare, mentre esercitava un mestiere molto umile, quello del muratore (…) essendo appassionato di musica, se ne andava tutte le domeniche in giro per le strade, con gli amici e la sua chitarra… Come si può non amare un popolo simile?”.

 

I marxisti schifiltosi del futuro accuseranno di populismo la sinistra degli anni Trenta. Che errore! La classe operaia non era stata solo classe, era anche popolo. E’ leggendo queste pagine della Weil sull’Italia e su quello che fu il nostro popolo che finalmente, il 25 aprile, per vie traverse, mi sono commosso con convinzione.