Il maestro russo Jurij Chatuevic Temirkanov

Il maestro Termikanov torna a Santa Cecilia. Perderlo, più che un errore, sarebbe un delitto

Jacopo Pellegrini
il maestro russo è alle prese con l’orchestra “di casa” e non con quella della Scala, con la quale aveva realizzato l’indimenticabile concerto dello scorso 9 marzo. E torna con tre repliche l’11, il 13 e il 14 aprile.

Torna con tre repliche l’11, il 13 e il 14 aprile, a Santa Cecilia, il direttore Jurij Chatuevic Temirkanov (il programma prevede Haydn, Shostakovich con solista al pianoforte Marta Argerich, e Dvorák). Stavolta il maestro russo è alle prese con l’orchestra “di casa” e non con quella della Scala, con la quale aveva realizzato l’indimenticabile concerto dello scorso 9 marzo. Quanti ettolitri, quanti quintali, quanti metri cubi di dolore angoscia disperazione può contenere il cuore d’un essere umano: ecco una misura difficile da calcolare. Certo più di quanto non dica il corpo di chi quel cuore ospita: Jurij Chatuevic Temirkanov è un uomo di statura media, asciutto e mingherlino, le spalle un poco curve sotto una folta canizie, eppure ha in sé una riserva di spleen, di angst, di tormento che sembra, ed è, inesauribile.

 

Un’astuzia del destino ha sottratto alla Filarmonica della Scala il direttore designato a condurla in giro per l’Europa, Myung-Whun Chung (rinunciatario per motivi di salute), così da obbligare l’orchestra milanese a cercare un sostituto, che poi sono diventati due, Christoph Eschenbach e il nominato Temirkanov. Nessuno di loro ha ritenuto di poter serbare in programma, accanto alla Sinfonia del “Barbiere di Siviglia” e all’“Italiana” di Mendelssohn, la Suite dal balletto “Romeo e Giulietta” di Prokof’ev prevista dal collega (e di ciò il Cielo li rimeriti), sostituendola l’uno con la Prima di Brahms o la Quarta di Cajkovskij, l’altro con la sinfonia del Russo. La quale, come ognun sa, è posta dall’autore (in una lettera del 17 febbraio 1878 alla dedicataria del lavoro, Nadezda Filaretovna von Meck) sotto il segno del “Fato, forza nefasta che impedisce al nostro slancio verso la felicità di raggiungere il suo scopo […], che, come una spada di Damocle, pende sulla testa e avvelena l’anima in modo infallibile e perenne”; e quantunque Cajkovskij concluda la sua privata esegesi dell’op. 36 con una nota di speranza (“Esistono gioie semplici, ma potenti. Rallegrati dell’allegria altrui. Malgrado tutto, si può vivere”), Temirkanov è troppo buon conoscitore della natura umana per non sapere come vanno a finire questi sussulti (fittizi) di ottimismo. Con lui e la Filarmonica scaligera (impegnatissima e in ottima forma) la Quarta narra lo sprofondare senza remissione in un torvo gurge. Dopo quest’ascolto rivelatore all’auditorium di Roma mi tocca pertanto un compito doloroso, manifestare il mio disaccordo con uno studioso (di Schubert, Richard Strauss, Busoni, Dallapiccola…) e critico eminente, nonché amico fraterno, il compianto Sergio Sablich, di cui ricorre il decennale della morte: le sue impeccabili note di commento alla Sinfonia (ristampate dall’Accademia di Santa Cecilia, ospite del concerto) si concludono con quest’affermazione perentoria: l’“epilogo […] afferma ora un altro mondo, come un’eco della morte che ridiventi vita”. No, caro il mio caparbio sognatore,ora lo sai meglio di Temirkanov e di chiunque altro, la morte non ridiventa mai vita, al più potrà offrirsicome porto tranquillo dovei nostri mali han finalmente requie. E’ proprio in questa chiave che il sommo maestro russo, dopo un quarto movimento condotto al modo d’una cavalcata infernale (nessuna traccia della “celebrazione popolare in un giorno di festa” chiamata in causa da Cajkovskij), fa risuonare la coda finale in fa maggiore: non trionfo sulle insidie del Fato, ma rassegnazione dinanzi alla sua violenza.

 

La Quarta di Temirkanov non conosce soste nella serenità o abbandoni pacificati, l’impulso motorio vi è continuo, implacabile: anche nei rallentando o stringendo prescritti in partitura la spinta del ritmo non si allenta (lo stesso vale per Rossini e Mendelssohn). Non c’è traccia di retorica o ridondanza (i fortissimi non debordano mai), tutto è asciutto, inflessibile, il calore del sentimento si sprigiona alchemicamente da una condotta oggettiva, ‘fredda’, il suono non insegue una bellezza smaltata e fine a se stessa, la sua corposa leggerezza (Temirkanov è un mago dell’ossimoro), la sua luminosità abbacinante sono, all’inverso,fiore del fraseggio, dell’espressione conferita alle singole frasi e al discorso complessivo (esemplare il bilanciamento archi-fiati), la voce principale – tema o melodia spiegata che sia – resta sempre in primo piano, senza tuttavia sacrificare gli “arabeschi capricciosi”, le “visioni sfuggenti”che si sprigionano dalla partitura memorabile. E poi, anche nei momenti di eccitazione nervosa (oltre a pressoché tutto Cajkovskij, ricordiamo il  crescendo del “Barbiere”, il Finale dell’“Italiana”), quale suprema eleganza di segno e di dettato. Temirkanov torna ora a Santa Cecilia, si diceva all’inizio: perderlo più che un errore sarebbe un delitto.

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