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Portare a Mediaset l'abc della democrazia

Salvatore Merlo

Paolo Liguori direttore editoriale. Meno urla, meno grilloleghismo (forse)

Roma. Paolo Liguori diventerà direttore editoriale, farà il commissario sui programmi dell’informazione, ne controllerà natura e contenuti, e Pier Silvio Berlusconi forse sarà finalmente accontentato, perché l’amministratore delegato di Mediaset, lui che ne fa una questione d’immagine più che di politica, un problema di estetica e di marchio – “troppe urla” – s’era lamentato persino più del suo papà e più dei dirigenti di Forza Italia, che sono arrivati a imputare il tracollo del loro partito alla tivù del Cavaliere, ai programmi di Maurizio Belpietro, di Paolo Del Debbio e di Mario Giordano. Forse un’esagerazione. O forse no. Già a luglio dell’anno scorso alcuni stretti collaboratori politici di Silvio Berlusconi avevano sollevato il problema, suggerendo una “rimodulazione” dei programmi, persino del pomeriggio di Barbara D’Urso, che talvolta lambisce gli argomenti dell’antipolitica, come quando la regina del salotto nazional-popolare, o pop-trash, aveva chiamato il pittoresco e pluricondannato Giancarlo Cito a difendere i vitalizi parlamentari, con effetti ovviamente grotteschi. E allora “Presidente”, avevano detto a Berlusconi i suoi collaboratori, “la rabbia è il carburante di altri partiti. O facciamo noi il partito della rabbia, oppure cambiamo il menù sul telecomando”. Alcuni mesi prima, a marzo del 2017, Fedele Confalonieri in persona, un uomo al quale il populismo televisivo piace ancora meno del populismo politico, diceva che “stiamo portando i vasi a Samo”, perché la tivù del vaffa “fa un po’ di share, certo”, gonfia gli ascolti tanto più aumenta la dose dell’horror, “ma ‘cui prodest’?”. Le elezioni dell’anno dopo forse lo hanno rivelato. Ma perché cambiare i programmi solo adesso?

 

Alla fine un vecchio uomo dell’azienda-partito svela, forse, il mistero, che è insieme psicologico e politico, e riguarda la storia dei rapporti intrecciati tra Arcore e Cologno Monzese, l’impero del Cavaliere, tra lui e i suoi giornalisti, i suoi direttori e conduttori, il suo mondo editoriale e consanguineo. “Il problema è sempre lo stesso”, sorride il vecchio uomo azienda, mentre tutti speculano e chiacchierano intorno alle ragioni che hanno portato a ricollocare soltanto adesso, a elezioni (per Forza Italia) perse, Del Debbio, Belpietro e Giordano, che è anche autore dei programmi dei suoi due colleghi e teorizza una televisione un po’ alla Salvini, dove conta molto il pulp, anche a costo di forzare la realtà delle cose: famoso fu il caso di un servizio con un finto rumeno che rubava macchine.

 

Ma se la chiusura dei programmi (nessuno è stato cacciato né licenziato) è dovuta ai toni urlati, para leghisti e quasi grillini, perché chiuderli ora, perché ripensarli soltanto adesso, che il danno è fatto? “Il problema si ripete sempre uguale. Come con Emilio Fede”, è la spiegazione. “Tra il momento in cui si era deciso di allontanare Fede, e il suo reale allontanamento, sono passati addirittura anni. I vertici si lamentano, capiscono quali sono i problemi, però poi si guardano tra loro negli occhi, e avendo a che fare con persone che stanno in azienda da una vita, si chiedono: ‘Va bene, ma adesso chi glielo dice a quello, che deve smettere?’”.

 

Chi glielo dice a Giordano? Chi a Belpietro? Chi glielo dice che Pier Silvio, guardando in casa d’altri, ai modelli esterni, preferisce lo stile compassato di “Otto e mezzo” a quello sbrigliato dell’“Arena”? Ci sono voluti un anno, il sorpasso della Lega su Forza Italia e la vittoria del M5s, perché Mauro Crippa, direttore generale dell’informazione, glielo dicesse. Lui che, tra l’altro, è anche quello che li aveva chiamati a Mediaset, sia Belpietro sia Giordano. Una comunicazione complicata anche dal fatto che i programmi non andavano poi così male. E la televisione commerciale, come tutti sanno, si fa principalmente guardando ai risultati di ascolto, con i quali si stabiliscono i prezzi di vendita della pubblicità, che è ovviamente il prezioso carburante di tutta la macchina televisiva.

 

Qualche ultra-malizioso sostiene che il ritocco dei programmi informativi, proprio adesso, accompagni in realtà l’idea diffusa ai piani alti del biscione, dunque ad Arcore, che l’Italia stia inesorabilmente scivolando verso nuove elezioni, verso un’altra campagna elettorale, che stavolta non dovrà accarezzare per il verso giusto il demone plebeista dell’antipolitica. Chissà. D’altra parte ai piani intermedi della grande azienda editoriale, tra i giornalisti e i tanti direttori, tra i conduttori e gli autori, in quel cosmo chiassoso di invidie e piccole ripicche personali, dove lo sport più diffuso è dileggiarsi con fraternità pettegola, si solleva una lamentela di carattere ormai endemico e di andamento carsico che riaffiora di continuo: “Persino gli ospiti delle trasmissioni sono pescati tra i volti tivù filo grillini, o comunque urlatori, della scuderia di Visverbi”, dicono, riferendosi all’agenzia di Valentina Fontana, moglie di Gianluigi Nuzzi, che cura l’immagine di alcuni noti (e meno noti) giornalisti.

 

Eppure, specialmente se così fosse, se davvero è così, se sul serio a Mediaset c’è un problema di leghizzazione (o grillizzazione) dei palinsesti, se si tratta di un’epidemia dilagante, del tentativo di fermare la tivù dell’urlo, appare abbastanza paradossale che per arginarla sia stato sostituito Mario Giordano con il suo allievo Marcello Vinonuovo, il giornalista che l’anno scorso, in un fuori onda trasmesso da “Striscia la notizia”, dalla regia del programma “Dalla vostra parte”, su Rete 4, si accertava che l’inviato in piazza aizzasse la folla contro l’allora viceministro Enrico Zanetti: “Chi me lo scuoia?”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.