Aggirarsi tra le macerie con l'ironia dei marchigiani e le domande inutili dei giornalisti
Macerata. Ti rendi conto di amare i marchigiani quando, buttati in strada dallo sciame sismico, guardano esterrefatti le immagini dei lampadari che si muovono a Roma o apprendono la notizia dell’evacuazione precauzionale della Farnesina: hanno pietrame in strada e crepe dappertutto, in migliaia dormiranno nei parcheggi degli stadi o dei palazzetti dello sport, gli ospedali di Tolentino, Cingoli e Matelica vengono evacuati, ma almeno tutti si fanno battutine e qualche risatina amarognola, “poverini!”: a sentire le tv o i siti dei quotidiani, nelle prime ore sembra che il terremoto sia stato più forte a Roma che nelle Marche, il classico rovesciamento della migliore tradizione umoristica.
La scossa delle sei del mattino che ti apre l’armadio ti convince invece a smetterla di far finta di dormire e a partire per Muccia, crocevia di tutte le strade che portano all’ennesimo terremoto umbro-marchigiano: per raggiungere Visso, Preci, Ussita, Castel Sant’Angelo sul Nera, Pieve Torina, Serravalle del Chienti, Camerino, sempre da Muccia bisogna passare ed è infatti lì che non a caso è stato piazzato uno dei primi Motel Agip voluti da Enrico Mattei, stazione di servizio e di sosta per tutti. La porta del bar però è scassata, non si apre, tutt’intorno pezzi di travertino della facciata del motel. “Entri a suo rischio e pericolo” dice uno con la pettorina della protezione civile mentre passi per l’altro ingresso. Dentro c’è una strana commistione di ordine e disordine. Qua e là penzolano ferri dal controsoffitto di cartongesso, dietro il bancone giacciono bottiglie rotte di liquori da camionisti, Cynar, Montenegro, Mistrà Varnelli (prodotto a pochi km da qui) eppure le signore servono caffè e cappuccini a bambini con la giacca a vento con sotto il pigiama e le ciabatte, a signore con l’accappatoio e le Crocs rosa, mentre fuori al distributore padri di famiglia gonfiano enormi materassini estivi per la sera stessa. Niente è più malinconico però dell’espositore che mostra i giornali del giorno prima. Di lì si arriva a Visso, accolti dalla sua prima frazione, Villa Sant’Antonio, dove s’incontrano le prime macerie lungo la strada e la chiesa col tetto completamente sfondato. Pensi ai manoscritti leopardiani (che in realtà sono già stati portati in salvo a Bologna), agli affreschi di Paolo da Visso, ma anche all’ottima macelleria Calabrò che produce le rare salsicce di pecora sopravissana (molto apprezzate nelle macellerie del ghetto romano, dicono). Visso ha una porta unica d’entrata, come ancora nel Medioevo, Polizia e pompieri non lasciano entrare nessuno.
Si prosegue dunque risalendo il corso del torrente Ussita fino al paese natale del Cardinal Gasparri, quello dei Patti lateranensi del 1928, e vedi le torri d’avvistamento pericolanti disseminate sui crinali limitrofi. In paese, nel cuore del parco dei monti Sibillini e a soli dieci chilometri da Castel S. Angelo sul Nera, ci sono più giornalisti vestiti da reporter embedded che abitanti, tanto che finiscono per riprendersi fra di loro, tutti con quelle ridicole telecamerine modello Report a inquadrare quattro poveri contadini frastornati e con le occhiaie per il sonno coatto in macchina e decine fra carabinieri, poliziotti, finanzieri, vigili del fuoco e volontari della protezione civile. Si torna allora indietro, facendo la fila per la strada interrotta dalla demolizione di due case pericolanti alle porte di Visso (una delle quali appena rivenduta), dopodiché sfila di fianco a noi la colonna del circo del terremoto: altri giornalisti, volontari improvvisati, venditori ambulanti, curiosi di ogni genere. Non resta che visitare rapidamente Camerino, antica sede ducale e universitaria, dove fu attiva quella che Federico Zeri definì “la più notevole scuola pittorica delle Marche”: il centro è stato dichiarato zona rossa, ma intrufolandoci ugualmente vediamo a terra le pietre arenarie delle abitazioni che furono di Ugo Betti e Carlo Crivelli, le fasce marcapiano cadute dalla neoclassica chiesa di Santa Maria Annunziata (già distrutta dal sisma del 1799) fra le urla che ci indirizza da lontano un pompiere affetto da megalomania protettiva. Non resta che tornarsene a Macerata, conservando però il senso di immane sospensione del consueto che anche questo terremoto ci ha prescritto.
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