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alice ed ellen

Dietro alla morte delle gemelle Kessler c'è l'idea che si possa morire perché la vita è completata

Eugenia Roccella

Se la morte non è un’affermazione di libertà ma una tristissima rinuncia al bene dell’esistenza, allora è necessario mettere a fuoco quello che scegliamo, non il come ma il cosa

Una morte “bella”, come belle erano loro, le gemelle Kessler. Una morte armoniosa, come armoniose erano loro, così perfettamente simmetriche, luminose ed eleganti. Una nota di ammirazione, come se ci trovassimo ancora a contemplare la grazia precisa dei loro movimenti, trapela spesso dai racconti sul loro addio alla vita, sulla decisione di andarsene insieme, in eterna sintonia. In realtà poco o nulla sappiamo del loro dolore esistenziale, della fatica di vivere che, come tutti, avranno sentito sulle spalle, della paura di restare sole, Alice senza Ellen, Ellen senza Alice. 

Non si può entrare nei giorni e nelle notti delle due sorelle, nelle ore buie in cui hanno maturato quella scelta. Ma la loro morte ci pone davanti a una domanda: è importante soltanto che ci sia una libera decisione personale, la famosa autodeterminazione, e che l’accento sia posto su “come” ognuno sceglie? Oppure è importante anche, anzi soprattutto, “cosa” si sceglie? Se la prima ipotesi fosse prevalente, vivere e morire sarebbero opzioni equivalenti, perché quello che davvero conta è solo che nessuno impedisca all’aspirante suicida di mettere in atto la propria volontà. Anzi, lo stato deve “assisterlo” nel suo proposito, fornendo strumenti e occasioni, senza però farsi coinvolgere più del necessario. In sintesi, io stato ti fornisco tutto l’occorrente, ma il pulsante lo premi tu, il gesto decisivo lo compi tu.

Se invece ognuno, in nome della comune, semplice qualità di essere umano, non può fare a meno di essere toccato dalle scelte del prossimo, se la morte non è un’affermazione di libertà ma una tristissima rinuncia al bene dell’esistenza, allora è necessario mettere a fuoco quello che scegliamo, non il come ma il cosa.

Nello stesso giorno in cui le Kessler morivano, a Roma la capo segretaria del sindaco ha cercato, con successo, di impedire un suicidio. Poco o nulla sappiamo della persona che voleva morire, della sua fatica di vivere, del suo dolore esistenziale, delle sue notti e dei suoi giorni. Si dirà, ma chi minaccia il suicidio chiede in realtà aiuto, vuole solidarietà e attenzione. E’ vero, ma è vero per tutti noi nei momenti di fragilità e di bisogno, quando la paura o la sofferenza ci schiacciano e ci sembrano un peso intollerabile.

In Italia non c’è soltanto la sentenza della Corte costituzionale con cui si depenalizza parzialmente, a certe condizioni, l’aiuto al suicidio. C’è la legge 219 sul consenso informato, approvata ormai quasi dieci anni fa, che consente di morire con la sedazione profonda ai pazienti che vogliano smettere di curarsi. Ma nel caso di Ellen e Alice non si può parlare di abbandono delle terapie, di dolore, fisico o psichico, che la medicina non riesce a gestire. E’ più adeguato un concetto che in alcuni paesi, come l’Olanda, è ormai abituale, l’idea di “vita completata”. Non ricorro al suicidio assistito o all’eutanasia perché malato o sofferente ma perché semplicemente l’ho deciso, perché la morte è un diritto esigibile, un’opzione come un’altra.

Al di là delle proposte di legge, delle sentenze della Corte costituzionale, del dibattito parlamentare, dovremmo, credo, aprire un dibattito su quello che vogliamo per il nostro futuro e i nostri figli. Un mondo dove morire è solo una decisione personale, o dove qualcuno ti dica, con fastidiosa e invadente insistenza: no, non andartene adesso. Dammi la mano, resta ancora con noi.


Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità

 

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