Ansa
L'editoriale dell'elefantino
Contro il Da-da-um-pa letale attorno al suicidio delle Kessler. Una scelta né eroica né esemplare
Le gemelle in cenere nell’unica urna con la stessa sostanza velenosa iniettata secondo legge nelle vene. Ciascuno fa quel che gli dettano coscienza e volontà, ma chi sopravvive dovrebbe concedersi il piacere gentile di una certa discrezione nel celebrare la dignità della morte come volontà e rappresentazione
Festa per il suicidio delle care amiche Kessler. Brutta sceneggiatura di serie, Call My Killer. Odiosa coreografia, questo Da-da-um-pa letale, questa idea stoico-dignitosa che “la morte è piccola per noi, troppo piccolina”. Pudore e calzamaglia nera furono il tratto distintivo di un successo allegro, scanzonato, ora a Monaco il pudore svanisce, resta il generoso e compiaciuto lutto eutanasico, il massimo della selezione nel momento della ricomposizione suprema, le gemelle in cenere nell’unica urna, nello stesso giorno, con la stessa sostanza velenosa iniettata secondo legge nelle vene, e scatta un applauso che ha qualcosa di inverecondo, di posticcio, specie da parte dei viventi (l’opinione dei morti non conta). Ciascuno fa quel che gli dettano coscienza e volontà, ovvio, e a quasi novant’anni poi. Ma chi sopravvive avrebbe forse il dovere o dovrebbe concedersi il piacere gentile di una certa discrezione nel celebrare la dignità della morte come volontà e rappresentazione.
Sono come l’Alexander Ritter di una bella biografia di Richard Strauss scritta da Alessandro Zignani, “sono un orecchiante di filosofia quel tanto che basta per non interessarmene” nel mio “bulimico dilettantismo”. Non impartisco né accetto lezioni sul suicidio stoico. Padrone del calendario e della loro vita, le gemelle hanno fatto qualcosa per cui in vita potevano essere programmaticamente e moderatamente soddisfatte, e va rispettato questo qualcosa. Che però non finisce di essere triste e non ha niente di lieto e magistrale, non ha alcunché di esemplare, come cinguettano tanti tanatofili incalliti e tante vestali della libertà. Vita donna e libertà, si diceva appunto, cose, anzi, soggetti, che sono assoggettati al tempo, alla derelizione, stato e senso doloroso di abbandono morale, di solitudine esistenziale secondo la Treccani, del corpo e della mente. La procedura, con medico e avvocato, la tortura burocratica della inquietante domanda delle autorità sulla reversibilità del volere di farla finita, domanda replicata fino all’ultimo istante, sono dettagli che non imbelliscono una cerimonia degli addii regolata dallo stato. Ci vorrà una legge, il permissivismo è tutto, vietato vietare, ma non necessariamente una festa.
La morte è una strana e complicata compagna di vita. Il suo bello, l’unico. Che la vita diventi una spensierata compagna della morte, e per di più a cura dei sopravvissuti, dei salvati, questo è un altro paio di maniche. Per due straordinarie gemelle la separazione finale era un incubo, erano dotate di irreprensibilità nel meccanismo decisionale, hanno scelto per una facoltà che non è un diritto né una speciale dignità. E non credo che avrebbero voluto fungere da cattedratiche del buon esito finale, avevano una semplicità anche nella tristezza che in loro sfolgorava come un’attitudine al ballo in maschera e che in noi sopravvissuti inutilmente ilari confina con il fare i vivi e i vivaci con la morte degli altri. Della cerimonia deve far parte anche un ordinario lutto per l’altro qualcosa, quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Da-da-um-pa.
un consiglio di lettura da un nostro partner: Vivenda