perfetto ambaradan

A Roma c'è una fermata della metro che ha cambia nome tre volte perché “è colonialista”

Salvatore Merlo

La fermata Amba Aradam della metro C è stata prima ribattezzata “Giorgio Marincola”, e ora chiamata “Porta Metronia”. Intanto il comune ha speso 450 mila euro per aggiornare software di guida automatica, cartelli e mappe digitali con il nuovo nome

Tre nomi, un cantiere infinito, un solo buco. Ecco un modo curioso, tutto italiano, di combattere la storia e raddrizzare il legno storto dell’umanità: cambiare la targa. Questa arte raffinata – la “toponomastica difensiva” – ha trovato a Roma, di recente, il suo capolavoro. Alla fermata Amba Aradam della metro C, già ex Amba Aradam, subito ribattezzata “Giorgio Marincola”, quindi chiamata “Porta Metronia”. Tre nomi, quindici anni di lavoro e un  buco nella terra che ora ha totalizzato 450 mila euro di spesa per aggiornare software di guida automatica, cartelli e mappe digitali con il nuovo nome sull’ennesima targa. Il tutto per cancellare una parola che – manco nella più fervida delle fantasie, quella di Achille Campanile per dire – è entrata persino nel vocabolario come sinonimo di caos: ambaradan. E mai sostantivo fu più adatto.

 

Nel 2010 a Roma si era deciso, infatti, di chiamare la fermata della nuova metropolitana C com’era probabilmente logico: Amba Aradam, appunto. Esattamente come la via più importante sopra il cantiere, un nome che deriva da una delle più caotiche battaglie della guerra d’Etiopia del 1936. Poi però, nel 2020, mentre l’Italia scopriva il razzismo coloniale con cent’anni di ritardo e il movimento Black Lives Matter diventava un festival della colpa occidentale, la sindaca Virginia Raggi si mise d’impegno a decolonizzare. Gli attivisti tappezzarono il cantiere di manifesti (“nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione”), Roberto Saviano invitò la politica a essere “coraggiosa almeno una volta”, ed ecco il risultato: la futura fermata, ancora nemmeno completata, venne (re)intitolata a Giorgio Marincola, il partigiano italo-somalo morto nel ’45. Solo che nessuna via, nessuna piazza, nessun marciapiede nei dintorni porta   il suo nome. In pratica il turista che si fosse avventurato a cercare via Amba Aradam avrebbe dovuto scendere alla fermata “Marincola”. Un rebus. Praticamente come il passaggio – Totò docet – da Piovarolo a Rocca Imperiale: un enjambement da rompicapo urbano, come se a Milano si decidesse di chiamare “don Milani” la fermata Duomo.

 

Qualche giorno fa, la giunta del sindaco Roberto Gualtieri, più pragmatica forse della precedente, ha allora provato a riportare un po’ d’ordine – o almeno a sostituire il disordine con uno più coerente. Ha dunque scartato “Marincola”, che avrebbe confuso persino i residenti, ha esitato su “Amba Aradam” per paura delle petizioni di Saviano, e alla fine ha scelto “Porta Metronia”: un nome antico, neutro, archeologicamente innocuo, tutto sommato coerente con il quartiere in cui si trova. Il compromesso perfetto fra il senso e il nonsenso. Ma ecco il paradosso, di nuovo: per evitare di dire “Amba Aradam”, la città ha speso mezzo milione per non chiamare la stazione col nome della via principale della zona in cui si trova. E intanto i romani continuano a dire, tutti: “Ci vediamo ad Ambaradan”.

 

La capitale, che da secoli convive con le rovine, è riuscita a inventarsi una rovina linguistica. Una città che non riesce mai a finire un’opera pubblica, ma che riesce sempre a cambiarle nome. E’ questa, in fondo, la vera archeologia romana: scavare, rinominare, dimenticare, spendere denaro. E ogni volta, un perfetto ambaradan. Quattrocentocinquantamila euro e un solo buco.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.