
Prego, selfie lei. Perché l'unica egemonia italiana è quella della burocrazia
Dall’università alle Olimpiadi, al selfie burocratico, l’ultima espressione del barocco fantozziano. Ecco le nuove trovate della burocrazia creativa 2.0
È inutile che la destra si agiti, e che la sinistra si deprima; l’unica vera egemonia culturale possibile in Italia è e sempre sarà quella burocratica. La burocrazia è infatti bipartisan, si adatta a qualsiasi governo e maggioranza, si modernizza alle nuove tendenze e tecnologie. Non ha colore politico. Prendiamo l’università: altro che woke. Il fantasma che si aggira è quello del modulo. Qualche settimana fa, non so dove, qualcuno si lamentava di aver tenuto delle lezioni e di aver dovuto firmare una quantità esorbitante di carte. Ma lo sappiamo benissimo, noi non docenti abituali, magari “scrittori e giornalisti” cioè fascia alta dei morti di fame, che mica dobbiamo prepararci per le lezioni, bensì a firmare pile di moduli come per un mutuo da un miliardo di euro; senza garanzie.
Ogni volta che veniamo chiamati a fare lezione in qualche ateneo l’esperienza umana è sempre straordinariamente bella, quella burocratica devastante. Chi ha vissuto l’experience rifuggirà l’accademia per sempre (dev’essere un sistema che l’accademia ha sviluppato per tenere lontani gli esterni). Qualche anno fa venni invitato all’università di Trento e con grande piacere andai, magnifico l’ateneo, stimolante l’incontro, salvo che dovetti firmare un cumulo di moduli tra cui c’era anche quello antisismico; dovevo cioè, mi pare (ho rimosso, per fortuna) dichiarare che in caso di sisma, l’università non si sarebbe presa la responsabilità del mio decesso da terremotato.
Per i magri compensi, altre carte micidiali, e a nulla vale l’opposizione (guardate, mandatemi una bottiglia di champagne, o anche niente, basta che non mi fate firmare carte), perché naturalmente la prestazione gratuita non è prevista dal burocratese; la persecuzione continua anche dopo, e a quel punto, non arrivando alcun bonifico, dopo una serie di telefonate debilitanti (nella telefonata con la burocrazia il tempo si dilata, tu perdi le coordinate spaziotemporali, sei assoggettato, diventi un numero, una fantozziana matricola) mi dissero che non potevano pagarmi perché avevano scoperto – l’efficienza della barocca burocrazia! – che ero in arretrato col pagamento di non so quale contributo o cassa previdenziale e dunque il compenso passava da una amministrazione dello stato all’altra! Ma allora si parlano (le amministrazioni). L’anno scorso ci sono ricascato, preso dalla libido docendi, e pensando che il privato fosse meglio; invitato al master di giornalismo della Luiss, prestigiosa università della capitale. Di nuovo: bellissima esperienza, ragazzi preparati e interessanti, magnifici ricordi a livello umano. Per farmi pagare sprofondo invece in una distopia postmoderna tra Kafka e Musk. Devo innanzitutto registrarmi su una piattaforma digitale. Poi lì procedere con firma elettronica (ma non in formato Adas o qualcosa del genere, perché non funziona, un altro, “Luiss sign” o qualcosa del genere); poi firmare il contratto. Per firmare il contratto devo farmi un selfie col passaporto in mano. Ma siete sicuri, chiedo. Sì, sono sicuri (il barocco burocratico si evolve continuamente, non si ferma un secondo, inventa continuamente). Procedo al selfie, ma non basta. Devo caricare il contratto. Il contratto non si carica. E’ cambiato il sistema, mi dice una solerte signorina. Ma come, non lo sa, mi dice un’altra solerte signorina: deve fare la fattura elettronica. E non inserire niente nel sistema! Ora, va detto che l’introduzione delle fatture elettroniche ha molto migliorato le nostre vite di fascia alta dei morti di fame, hai tutto in un pannello e l’illusione di tenere sotto controllo committenti, fatture, guadagni. Illusione, appunto. Intanto nel database di “Fatture in Cloud”, la Playstation di chi ha la partita Iva, non esiste la Università Luiss: esistono invece: una “Luiss di Maria Celentano a Grosseto” che non credo sia quella che mi interessa, una “Luiss Srl” di Torre del Greco. E perfino un signor Florin Luiss Predescu a Pantigliate (qui mi commuovo, sarà uno dei romeni amici di Tommaso Labranca che a Pantigliate, hinterland milanese, viveva). Quindi, terrorizzato dalle conseguenze burocratiche che mi perseguiteranno per anni se sbaglio la fattura elettronica, imposto “nuovo cliente” coi dati fiscali che trovo online, e copio, pieno d’ansia; ma chiedo a una (nuova) signorina se siano corretti. “Non deve chiedere a me, deve chiamare XYZ”. Naturalmente XYZ non risponde, allora scrivo una email e XYZ mi conferma i dati (ma perché la Luiss non è nel database di Fatture In Cloud? Mistero). Comincio a perdere la fiducia in Fatture In Cloud, l’unica certezza che mi rimaneva. Faccio la fattura elettronica, invio (mentre traffico su Fatture In Cloud, mi rendo conto anche che diverse fatture inviate negli ultimi anni non mi sono mai state pagate. Di lì altre telefonate umilianti e ansiogene. E la consapevolezza che l’altra egemonia culturale italiana è il non pagare nessuno, nel paese che paga “a centoventi giorni”, quando paga; da cui si capisce perché la Santanché, accusata tra le altre cose di non pagare i dipendenti delle sue riviste, è ancora ministro. Questo è un paese a Santanché diffusa. Santanché in cloud.
Ma torniamo al selfie. L’altro giorno, nelle more del recupero crediti, cerco di fare l’accredito stampa per andare ad assistere alle Olimpiadi Milano-Cortina l’anno prossimo. La mail del Coni, che organizza, precisa che bisogna essere in possesso di un documento di identità che non scada prima del 2026 (la patente non la vogliono, il mio passaporto scade tra tre mesi, alla carta di identità ho rinunciato da anni, a Roma è più facile andare in udienza privata dal Papa – letteralmente, come dicono oggi i giovani – che ottenerla). “Be’, non so che dirle, rinnovi il passaporto” fa la solerte signorina del Coni.
Un’impresa che mi atterrisce. Per curiosità vado allora sul sito del comune di Roma (riprova con la carta d’identità, mi dico. Con Gualtieri sarà cambiato tutto. Guardo gli uffici che fanno la carta di identità elettronica, risultato: nessuno). Ma il capolavoro del barocco burocratico è la foto, la foto da allegare alla richiesta di accredito del Coni: ecco le specifiche: “Deve essere digitale e a colori – per favore no scannerizzazioni” e fin qui va bene. Poi: “Lo sfondo deve essere bianco e senza alcuna scritta o ombra”; e anche qui capisco; “La persona non deve indossare cappelli, copricapi e occhiali scuri, tranne che per motivi religiosi o di salute. In tal caso gli occhiali devono essere chiari e non creare né riflessi nello sguardo né coprire con la montatura parte degli occhi”; Ok; ma il livello di difficoltà sale; poi: “La foto deve mostrare il volto in primo piano fino all’altezza delle spalle, non deve essere tagliata sui capelli e lo sguardo deve essere fisso nell’obiettivo, i capelli se lunghi non devono coprire il viso”; Ok, purtroppo Oliviero Toscani è morto e non può aiutarci, forse consulterò Mario Testino; e ancora: “Deve essere recente (entro gli ultimi 6 mesi)”; “Deve essere in formato elettronico e il file deve essere tra 500KB e 3MB”; “Il formato verticale con un rapporto 4:5 (base x altezza) e grandezza minima di 480 per 600 pixel”; “Non deve avere riflessi né in faccia né dietro la testa e di conseguenza ombre sullo sfondo; la persona non deve essere ritratta di profilo (nemmeno parzialmente) e la sua immagine deve essere centrata nella foto”; sale l’ansia; “Gli occhi devono essere aperti e chiaramente visibili, non si devono indossare lenti a contatto colorate”; ma qui arriviamo al capolavoro kafkiano: “L’espressione della persona deve essere neutrale, la persona non deve sorridere e non deve mostrare i denti”; ma che avete, o voi olimpici, contro il sorriso? E com’è un’espressione “neutrale”? Medio-depressa? Allegra, non troppo? Chiamo la signorina un po’ perplesso, che mi risponde sbrigativa: “be’, che ci vuole, segua le istruzioni e vada da un fotografo e se la faccia mettere sulla chiavetta”. Ora, l’ultima volta che ho fatto una foto da un fotografo credo fosse il 1987, non credo che esistano ancora studi di fotografi in Italia (magari mi sbaglio, è una nicchia fiorentissima come i giornalisti). All’epoca esisteva invece ancora l’Unione Sovietica; forse, ma non ne sono certo, lì la burocrazia era leggermente inferiore.