Il ponte della Motta, che collega Budrio a San Martino in Argine. Foto Ansa 

l'analisi

La gestione dell'acqua è inseparabile dalla nostra storia

Giulio Boccaletti

Non è solo una questione emergenziale. I fiumi sono vivi: se si lascia loro fare, si spostano, creano terra. Ma abbiamo saputo contenerli e forzarli rispondendo sempre a nuove sfide

Una delle tante immagini tristemente iconiche di questa alluvione è quella di un fiume che, avendo rotto l’argine, vira repentinamente a destra lasciandosi alle spalle un ponte distrutto. L’alveo originale, a valle della breccia, è rimasto vuoto, una scanalatura abbandonata sulla pianura. E’ successo nel paese nel quale sono cresciuto: Budrio, in provincia di Bologna, dove l’Idice, affluente irruento e indisciplinato del Reno, ha deciso di avventurarsi per la campagna in cerca di un nuovo corso, sommergendo coltivazioni e case lungo il suo cammino. Il genio militare, la protezione civile, il comune e la regione sono ora impegnati nel tentativo di ricondurre il fiume ribelle nel proprio corso originale.

In questo evento che ha colpito dozzine di comuni come Budrio (alcuni in modo ancora più pesante) ci si è focalizzati sulla catastrofe, su ciò che si è perso, sulle vittime. E’ giusto così. Dopotutto, le dimensioni di queste precipitazioni sono state davvero eccezionali. Anche se alcuni impatti fossero stati mitigati, sarebbe stato difficilissimo contenerne la forza. 

Detto questo, l’alluvione in Emilia-Romagna ha offerto l’ennesimo stimolo per parlare di gestione delle acque, e ha posto la domanda di come debba cambiare il nostro rapporto con esse per minimizzarne i rischi futuri. Soddisfare usi diversi, dal servizio potabile all’irrigazione e all’idroelettrico, mentre si proteggono comunità e attività economiche da alluvioni e da siccità prolungate, è cosa complessa. Richiede un portafoglio di interventi mirati, dalla gestione del manto forestale, alle scelte di coltivazione agricola, alle opere idrauliche, e con regole operative sofisticate: quando rilasciare acqua dagli invasi o permettere che un fiume si espanda a monte in modo da limitare la pressione a valle, per esempio. Tutto questo va affrontato caso per caso, con strumenti tecnici in supporto a discussioni politiche, poiché ogni bacino, ogni comunità ha problemi e esigenze diverse. 

Ma poiché si ha un dibattito pubblico sulla gestione dell’acqua quasi esclusivamente quando succedono eventi eccezionali, si tende ad affrontare questo dibattito come se gestire l’acqua fosse solo questione emergenziale, di investimenti eccezionali per recuperare una normalità nella quale quella gestione non ha ruolo. Siamo talmente abituati a godere di una sicurezza idrica continua che ci siamo convinti che la normalità sia un paesaggio “naturale”, lasciato a sé stesso, mentre noi viviamo la nostra vita al ritmo della modernità. Che gli interventi idraulici o la trasformazione del territorio siano scelte motivate dalla sola eccezione. 

Non è così. Viviamo in ecosistemi che sono fondamentalmente artificiali. Questo non vuole dire che non ci sia natura o biodiversità. Ma quando guardate fuori dalla finestra, il paesaggio che vedete è per la maggior parte opera dell’uomo. Ciò che ci circonda è il prodotto di un’opera di trasformazione continua. Da secoli in Italia, popolazioni successive hanno cercato di costruirsi una vita prevedibile in un territorio che prevedibile non è. 

Come ha mostrato in maniera plastica l’Idice, i fiumi sono vivi. Se si lascia loro fare, si muovono. Si spostano. Creano terra. Spostano la costa. Fanno, insomma, come fossero a casa loro. Il territorio che abitiamo è plasmato dall’acqua. Ce ne accorgiamo solo in casi eccezionali perché per la maggior parte del tempo li conteniamo, li controlliamo e li forziamo a comportarsi come serve a noi.  E’ il prodotto di un sistema infrastrutturale e di gestione complesso, che è sempre al lavoro per rendere invisibile l’acqua sul territorio.

 

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Se vi capita di osservare una carta geografica del nostro paese, noterete che seguendo la linea della costa adriatica, partendo da Rimini e dirigendovi verso nord, sopra le valli di Comacchio si vira decisamente verso oriente, seguendo una protuberanza che da Goro si proietta come un’enorme pensilina verso il mare. E’ il delta del Po, che protrude dalla costa così tanto da essere visibile dallo spazio. Passata la sua punta estrema, la costa rientra e si dirige verso nord-ovest raggiungendo Chioggia, dove comincia la laguna di Venezia. Questo profilo singolare, caratteristico della nostra penisola, non è naturale. O meglio, non è ciò che la natura, se lasciata a sé stessa, avrebbe prodotto. 

Nel 1152 a Ficarolo, non lontano da Ferrara, il Po ruppe gli argini e cambiò corso. Era la cosiddetta breccia di Ficarolo. Con ogni probabilità fu un evento non dissimile da quello che ha colpito la Romagna in questi giorni: una precipitazione improvvisa, esondazioni che eccedettero le strutture del tempo. Il Po si spostò, dando inizio al suo delta rinascimentale. I principali canali verso il mare, il Po delle Fornaci e quello di Goro, erano ben più a nord di quanto non siano oggi, e non trasportavano solo acqua. Nei secoli, a partire dagli insediamenti celti e romani, i territori che circondano e alimentano il grande fiume erano stati pesantemente disboscati, aumentando la quantità di terriccio che le piogge potevano trascinare a valle. Il carico di sedimenti che raggiungeva la costa era aumentato anch’esso.

Nel tempo, i veneziani cominciarono a preoccuparsi che quei sedimenti portati dal fiume potessero chiudere l’imboccatura della laguna. E così decisero di effettuare il “taglio di Porto Viro”. Un progetto di ingegneria idraulica per deviare le acque del Po verso la Sacca di Goro. Il Senato della Repubblica affidò la costruzione del canale artificiale, lungo sette chilometri, ad Alvise Zorzi, il cui progetto fu approvato il 27 agosto 1599. Il progetto ottenne il “placet” pontificio da Clemente VIII nel 1600, in corrispondenza del giubileo. I lavori iniziarono nel giugno del 1600 e si protrassero fino all’autunno del 1604. 

L’opera finì per costare 300.000 ducati d’oro, il doppio di quanto inizialmente previsto: evidentemente ritardi e eccessi di spesa non sono un problema moderno. Cinque anni dopo l’inizio dei lavori, Il 16 settembre 1604, il Provveditore al canale Zangiacomo Zane, che nel frattempo aveva sostituito Zorzi, comunicò al senato che l’acqua era entrata nel canale. Venezia si era salvata. Ma i sedimenti che avrebbero interrato Venezia, costringendola a un futuro interamente agricolo e molto poco lagunare, non erano spariti. Seguendo il taglio, stavano accumulando a sud della laguna, contribuendo ad un delta del Po più concentrato. 

Nei secoli successivi al taglio, il delta cominciò ad avanzare e a spingersi nell’Adriatico, guadagnando terreno sul mare. Inizialmente era poca cosa, circa dieci ettari all’anno. Ma nel Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, complice l’aumento della deforestazione e l’espandersi dell’agricoltura negli altipiani, la quantità di sedimenti trasportati dal fiume aumentò. Con i lavori di bonifica e arginamento dei rami di distribuzione, il flusso accelerò ulteriormente e il delta cominciò a guadagnarsi circa settanta ettari all’anno. E così, per salvare la laguna di Venezia, il profilo della nostra penisola assunse la sua forma moderna.

La dinamica tra fiumi e società continua in quella zona. Le acque della laguna veneziana sono il risultato di un complesso equilibrio tra acqua di mare e acqua portata dai fiumi. Dal Cinquecento, il Brenta e il Piave che alimentano la laguna sono stati modificati per sostenere l’agricoltura dell’entroterra. Questi interventi, regolati dai Magistrati alle Acque, hanno avuto impatti inevitabili sull’ecosistema lagunare. In un certo senso, la recente costruzione del Mose, opera complessa e controversa funzionale alla protezione della città lagunare dalle incursioni del mare, non è altro che il più recente passo in questa danza secolare.

La morale di questa storia è questa: la gestione dell’acqua è cosa dinamica. Ogni scelta che facciamo produce conseguenze, spesso impreviste, che si manifestano nel tempo. E’ inevitabile. E’ la nostra storia. L’acqua si muove. Mitigare i rischi di alluvioni e siccità, mitigare i rischi più gravi, non significa eliminare ogni possibilità di sorprese, ma accettare che la nostra relazione con l’acqua è dialettica. A ogni passo che facciamo, corrisponde una risposta che prepara il passo successivo. Risolvendo i problemi di ieri non possiamo fare altro che creare quelli di domani. E’ nella natura di una società sedentaria circondata da un mondo di acqua che si muove.

 

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L’Italia ha una storia secolare di trasformazione delle proprie acque e, con esse, del proprio territorio. Se vi si presta attenzione solo durante le emergenze, o se la si nota solo quando le cose vanno storte, si legge il paesaggio in maniera sbagliata e si diventa ciechi su quanto sofisticato questo sistema sia.  E’ un problema, anche perché sono proprio quella tradizione, e le competenze che rappresenta, che devono essere messe al servizio di una nuova trasformazione nel nostro rapporto con l’acqua. Questo non vuole dire ripetere gli stessi interventi del passato – oggi sappiamo molto di più del comportamento dell’acqua sul territorio e della sua interazione con gli ecosistemi che ci vivono. Ma è pur vero che solo capendo ciò che è stato fatto, si può poi immaginare l’universo di ciò che dovremo fare. 

Se torniamo alle zone alluvionate del bacino esteso del Po e del Reno, per esempio, per secoli gli investimenti delle comunità locali hanno collegato migliaia di canali e alvei in un complesso reticolo navigabile che era uno dei più grandi d’Europa. Era un sistema nel quale gli investimenti si confrontavano continuamente con la dinamica naturale del fiume per sostenere un territorio altamente produttivo. Le cicatrici di quel confronto si vedono ovunque sul territorio che oggi si sta rialzando dal fango.

Un tempo, il Po di Primaro partiva da Ferrara come deviazione del ramo principale, raggiungendo il mare a circa 18 chilometri da Ravenna, alimentato da acque del Reno e dai torrenti minori della Romagna. Già dalla metà del Sesto secolo si sapeva che il destino questo ramo era segnato (oggi si chiama, appunto, Po Morto di Primaro). Si stava estinguendo a favore del Po di Volano. Il problema era rallentare il processo, o almeno gestirlo. I ferraresi temevano che l’elevato carico di sedimenti del fiume e la natura variabile del flusso del Reno avrebbe reso sempre più difficile la navigazione. E così, con l’espandersi della Casa d’Este in Romagna, i torrenti che scendono dall’Appennino vennero regolati per gestirne l’impatto sul Po di Primaro, stabilendo le fondamenta del territorio alluvionato. 

Gli interventi di Ferrara erano di enorme interesse a Bologna, avversaria dei ferraresi a monte. Bologna era una grande potenza fluviale. Nel 1554 venne addirittura avviato un servizio postale tra Bologna e Venezia, basato interamente sulla navigazione di acque interne. Il servizio partiva dal Canale Navile di Bologna, passando per le Valli di Masi tramite il Po di Primaro e fino al mare per raggiungere Venezia. Alla fine del secolo, il Po di Primaro fu chiuso per mantenere la navigazione sul Po di Volano, che da Ferrara andava direttamente al mare. Il Reno non arrivava più alla costa ma si esauriva più o meno in paludi. 

L’accesso al mare era diventato quindi difficoltoso. E così, quando Ferrara tornò sotto il controllo pontificio (proprio mentre i veneziani eseguivano il Taglio di Porto Viro) si cominciò ad immaginare un’idraulica diversa per la zona. Anni più tardi l’ormai morto alveo del Po di Primaro fu utilizzato per convogliare le acque del fiume Reno, tagliando un canale di 40 chilometri. Questo è il cosiddetto Cavo Benedettino, così chiamato per Benedetto XIV. Il Reno, per secoli affluente del Po, era diventato un bacino idrico separato. 

Chiariamoci: gli interventi di tutti quei secoli non hanno causato le alluvioni di questi giorni. Sarebbe un’affermazione senza senso. Ma hanno determinato, quello sì, la geografia della zona, alimentando la crescita economica e le successive, straordinarie opere di bonifica dell’Italia unitaria, facendo sì che una zona storicamente paludosa e inospitale fosse interamente colonizzata. E occasionalmente esposta, come in questi giorni, ai fiumi che eccedono i limiti imposti loro da una società che tenta di piegarne il comportamento ai propri bisogni. 

 

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La storia d’Italia è piena di episodi come questo. Necessità economiche e strategiche che motivano investimenti nel territorio, e che poi definiscono le condizioni di partenza per ciò che succede dopo. E’ una storia di aggiustamenti costanti, di modifiche per inseguire le necessità della società, mettendo l’idraulica e la gestione del territorio al servizio della comunità. E’ una storia piena di contingenze, che faremmo bene a studiare, oggi che il territorio ci chiede di intervenire nuovamente.

Il caso di Milano, cuore economico del paese, è emblematico. La città non è sul Po, ma si trova tra due suoi grandi affluenti – l’Adda, che scende dal Lago di Como, e il Ticino, che scende dal Lago Maggiore – ed era storicamente collegata al Po attraverso un complesso sistema di canali, il prodotto di tanti sviluppi incrementali nel tempo in risposta ad esigenze via via diverse. 

Durante l’età repubblicana, i Romani costruirono un sistema di approvvigionamento idrico e una fognatura per scaricare le acque reflue di Milano nel Lambro. Lì si esauriva l’infrastruttura idrica della città. Poi, caduto l’impero nel V secolo, quelle infrastrutture pubbliche, troppo difficili da difendere, furono abbandonate. Dopo le invasioni, il territorio intorno di Milano fu perso a boschi e paludi. 

Quando, nel Medioevo, la città ricominciò a crescere, si fece d’acqua. In epoca comunale venne ampliato il fossato che circondava la città, raccogliendo l’acqua del Seveso e del Nirone. Il fossato fu temporaneamente colmato dall’imperatore Federico I nel 1156, ma dieci anni dopo era già stato ripristinato. Nel 1209 il fossato fu collegato al Ticino meridionale da un altro canale artificiale, il cosiddetto Ticinello. Si trattava ancora di infrastruttura principalmente difensiva, non navigabile (in realtà poco efficace come difesa) ma da lì a poco le cose sarebbero cambiate con l’apertura delle rotte commerciali transalpine. 

Sappiamo che nel 1269 la città impose una tassa per finanziare l’allargamento del canale, convertendo il tutto in un sistema pienamente navigabile. Lo sviluppo fu un progetto d’impresa sia pubblica che privata, per la quale gli utenti pagavano per l’uso, coinvolgendo tutta la comunità della zona. Per esempio, l’abbazia di Chiaravalle contribuì acqua al sistema, allargando un canale irriguo preesistente. Tutto questo trasformare il territorio favorì anche un’evoluzione del paesaggio urbano. L’afflusso d’acqua permise di coltivare giardini urbani, che spuntarono in tutta la città, e dei quali si ha traccia ancora oggi. Si formò un mercato di concessioni per la manutenzione dei canali, tipicamente dati a famiglie che puntavano a prestigio sociale e ritorno economico. Come in tante città italiane, la gestione dell’acqua portò anche una rivoluzione industriale: scorreva in canali cittadini che alimentavano i mulini, non solo per macinare, ma anche per cucire tessuti o segare il legname. 

Con la stabilizzazione degli stati intorno al Rinascimento e la piena ripresa del commercio, l’infrastruttura di difesa fu interamente soppiantata, prima dall’irrigazione e successivamente da un’ulteriore espansione della navigazione. I canali che circondano Milano, e che consentivano il commercio delle merci, oggi sono conosciuti come “Navigli” perché, appunto, erano navigabili. Tramite il Ticino e Adda, il commercio milanese aveva accesso al nord Europa. I battelli fluviali potevano partire da Milano, percorrere il Gran Naviglio, il più grande, e risalire il Ticino fino al Lago Maggiore, da dove le merci superavano le Alpi. Fu questo commercio a monte che provocò un’invenzione fondamentale per la navigazione fluviale: la conca, il sistema di chiuse in due parti ormai diffuso in tutta Europa.

Lo sviluppo idrico di Milano continuò con l’industrializzazione italiana. Il paese non aveva il carbone, il fondamento dell’industrializzazione dell’Ottocento. Il combustibile era importato dall’Inghilterra e, data la distanza, costava tre volte il suo prezzo all’origine. Per completare il processo di industrializzazione serviva quindi energia meno costosa. Fiumi ripidi come l’Adda erano ideali per lo sviluppo dell’energia idroelettrica. Durante la recessione del 1890, la compagnia Edison, che aveva un contratto per l’elettrificazione dell’illuminazione a Milano, raccolse investimenti per elettrificare anche il trasporto pubblico della città. In pochi anni costruì l’impianto idroelettrico Bertini che nel 1898 divenne la centrale più grande d’Europa, con i generatori più potenti del continente.
Questa esperienza diede il via all’elettrificazione dell’industria italiana. Nel giro di settant’anni tutto l’ammodernamento dell’economia del paese fu fatto grazie all’idroelettrico. Le Alpi e il loro fiumi divennero il motore del paese, fornendo elettricità per il miracolo economico, fino a quando Mattei non portò il gas e la tragedia del Vajont non mise fine all’entusiasmo idraulico. L’acqua e la sua gestione sono inseparabili dalla nostra storia economica e dal nostro sviluppo sociale.

 

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C’è un famoso disegno del fiume Arno di Leonardo, fatto quando l’artista era poco più che cinquantenne (il disegno fu acquistato dal Re d’Inghilterra Carlo II e da allora si trova nelle collezioni reali della Gran Bretagna.) Leonardo stava lavorando a un affresco nella Sala del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio, la celebrazione della vittoria contro il ducato visconteo nella battaglia di Anghiari, ma fece questo schizzo per un problema molto sentito. Al tempo, l’Arno non era navigabile fino a Firenze. Nel disegno – una carta poco più grande di due lettere messe una a fianco all’altra – Leonardo inchiostra uno schema per aggirare il problema con un canale, che avrebbe viaggiato verso nord-ovest attraverso Prato e Pistoia, tagliando montagne e paludi, per poi ricongiungersi al fiume vicino a Pisa. (Nel 1503, dopo l’ennesima infruttuosa e costosa campagna militare, Machiavelli cercò di fare una variante di quello schema, poi rivelatosi fallimentare, per tagliare i Pisani dal fiume.) La gestione dell’acqua è veramente inseparabile dalla nostra storia. 

Il clima sta cambiando. Con esso cambia la statistica degli eventi meteorologici, come è sempre più evidente. Infrastrutture e istituzioni idriche servono per gestire la variabilità del clima, che si esprime attraverso l’acqua. Quelle del nostro territorio sono state disegnate sulla base dell’esperienza degli ultimi cinquecento anni, funzionali a esigenze storiche, e non sono calibrate per ciò che ci aspetta. Dovranno cambiare, come del resto hanno sempre fatto. Ma per fare scelte sensate, non possiamo intendere le infrastrutture idriche solo come strumenti di gestione del rischio. Sono funzionali a priorità economiche e strategiche. Il territorio italiano è bello, ricco di risorse naturali, con una singolare biodiversità data dalla sua estensione in latitudine. Ma è anche la nostra casa, un territorio complesso e fragile che funge da piattaforma per una società ed un’economia tra le più moderne al mondo. L’alluvione di questi giorni, l’Idice che decide di cambiare corso distruggendo in un momento secoli di abitudini, ci ricordano che l’acqua è sempre un mondo in divenire, dove le scelte fatte per risolvere i problemi di una generazione finiscono per definire le sfide di quella successiva. Noi, oggi, non siamo diversi. La nostra, con l’acqua, è una storia lunga, durante la quale abbiamo sempre lottato con le abbondanti risorse idriche della penisola, imparando a convivere con la sua complessità. Come riconciliare i nostri valori culturali, sociale e ambientali, oggi costituzionalizzati, con le nostre aspirazioni di sviluppo e sicurezza rimane la domanda centrale della gestione dell’acqua sia nelle emergenze, come la siccità o l’alluvione, sia nella gestione ordinaria. Non c’è un’unica risposta a questa domanda, ma secoli di esperienza ci mostrano che, se ne impariamo le lezioni, saremo in grado di affrontarla. 

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